C’è ancora domani per il cinema italiano: un 2023 incredibile!

Il cinema è morto. Anzi, il cinema italiano lo è. Lo suggeriscono le statistiche, lo dicono i critici, ne sono convinti gli spettatori. È spacciato, e non è la prima volta: lo era già negli anni ’80, orfani del neorealismo prima e della stagione della commedia all’italiana poi; lo è stato, in realtà, quasi sempre nel suo ultimo lustro di vita. Eppure, il tanto bistrattato cinema nostrano si è risollevato, risorgendo dalle ceneri di un’industria in apnea, che ha rantolato nel momento più difficile (l’incubo della Pandemia), brancolando nell’oscurità di sale sigillate e produzioni morenti. Si è riscattato dal pessimismo cosmico di chi ne decreta una profonda crisi creativa e ne celebra il requiem, dalla poco lusinghiera sentenza che sta un po’ sulla bocca di tutti, di chi “non guarda film italiani”, di quelli che “il cinema italiano fa schifo”.

Insomma, il cinema italiano è morto e sepolto. Eppure, il suo è un cadavere ambulante, uno zombie che ha il passo claudicante dei mostri di George Romero ma la vitalità intrinseca di chi la fine la rifiuta e si guadagna l’appellativo di non-morto. Eppure, continuiamo, la sua camera gestazionale contiene l’embrione di una settima arte che riesuma l’ingegno, fecondo di idee, che si riscopre capace di divincolarsi dal giogo del comico macchiettistico (che possiede comunque una propria dignità cinematografica e un importante peso specifico all’interno del settore) e di riesplorare i generi ricordandosi di essere incandescente fucina di Storie, di poter ancora sconquassare il box-office con qualcosa di diverso, di più coraggioso di un cinepanettone, di occupare fiero e ingombrante i circuiti festivalieri.

C’è ancora domani scardina ogni preconcetto

È vero, l’industria è in ripresa in misura minore rispetto ad altri paesi europei (la crescita post-pandemia è maggiore in Francia, Inghilterra e Germania), ma l’aumento dell’affluenza in sala lascia quantomeno sperare per il futuro prossimo, nonostante l’ombra minacciosa delle piattaforme streaming e la prospettiva (si spera remota) di una convergenza definitiva, una transizione che potrebbe non ammettere convivenza.

C’è poi l’annosa condanna (e soluzione) a un botteghino perennemente dominato dal blockbuster d’oltreoceano, con un 2023, in realtà, meno cinecomic-dipendente e maggiormente segnato dal fenomeno Barbenheimer, ma comunque in linea con gli anni precedenti in termini di incassi legati a produzioni italiane (che in media si attesta intorno al poco incoraggiante 20%). Ma in fondo al tunnel tutto glitter e rosa pastello il bianco e nero di un film italiano rivela la sua forma di berlina d’altri tempi (ma calzante per quelli in cui viviamo) e scopre sotto la carrozzeria un motore tanto ruggente da far impallidire le Ferrari di Michael Mann: è C’è ancora domani.

L’opera prima di Paola Cortellesi è il film più visto del 2023, con buona pace di Greta Gerwig e Christopher Nolan. E quella dell’attrice romana è un’operazione che merita tutti gli elogi che ha ricevuto e che continua a intascare (ve lo raccontavamo nella nostra recensione di C’è ancora domani). Perché il film è l’insperato trionfo della meritocrazia, l’emblema di un cinema redivivo e brioso, di un’industria che ha ancora qualche chance di vendere la qualità e di non soggiacere ai dettami del prodotto di massa. Bisogna ammettere che il merito è ancora, in parte, da attribuire allo status raggiunto da Paola Cortellesi e dall’altro grande nome che nel film la affianca, Valerio Mastandrea: è la legge di uno star-system che il più delle volte in Italia appare sterile ma che, in fin dei conti, trascina le persone al cinema.

E qui si svela l’altra faccia della medaglia: La Chimera di Alice Rohrwacher. Quello che è forse il miglior film italiano dell’anno, in concorso al Festival di Cannes, paga, tra le altre cose, proprio l’assenza di volti noti (il britannico Josh O’Connor interpreta il protagonista). Irreperibile dopo pochi giorni dalla data di distribuzione ufficiale, La Chimera, della meritocrazia, ne è la disfatta. Distributori ed esercenti non ci hanno creduto, convinti che il cinema d’essai non paghi.

Ma quello di Rohrwacher è un gioiello di poesia e sensibilità e in una società divora-immagini, che si ciba di audiovisivo, dovrebbe idealmente essere protetto e innalzato a piatto prelibato. Adesso i social intercedono viralizzando lo scandalo di una distribuzione fallace e il passaparola fa il suo corso restituendo al film le meritate attenzioni. A noi è piaciuto tantissimo infatti: ecco la nostra recensione de La Chimera.

Il caso Dampyr e il genere in Italia

Le stesse attenzioni che gli spettatori americani hanno rivolto all’italianissimo Dampyr, cinefumetto passato in sordina nei cinema nostrani e tra i prodotti più visti di Netflix USA nelle scorse settimane. Una trasposizione coraggiosa che strizza l’occhio al b-movie e rimane fedele al fumetto Bonelli, ma che cade vittima del diffuso feticismo per il cinecomic hollywoodiano che monopolizza un genere e un’estetica, e finisce per essere apprezzato negli Stati Uniti forse proprio perché in qualche modo se ne distacca e ne costituisce una variazione visiva.

Ma anche Dampyr dimostra che qualcosa si muove e, se da un lato l’accoglienza problematica dei film citati è sintomatica di una mentalità che necessita di cambiare e che per farlo ha bisogno di tornare a nutrirsi di Cinema, di rieducarsi al linguaggio cinematografico, di rimasticare la qualità, dall’altro l’industria dimostra che siamo ben lontani da quella moria di maestranze che al pensiero fatalista piace dichiarare.
In questo senso il 2023 vede un cinema italiano in grande spolvero. L’Io Capitano di Matteo Garrone è fresco di nomination ai Golden Globe (con buone possibilità di replicarsi agli Oscar) dopo aver commosso tutti e riconfermato il talento e la capacità del regista di Dogman di fare del proprio realismo fiabesco uno sguardo unico nel panorama italiano. Al Festival di Venezia, insieme a Io Capitano, c’erano Comandante e Adagio: entrambi vantano la presenza di quel Pierfrancesco Favino camaleontico che cannibalizza lo schermo; entrambi sono prodotti inusuali per i canoni di quel cinema italiano che nell’immaginario comune attuale non risica e non rosica.

Il primo, tutto cuore e cameratismo, è già a partire dal concept e dall’ambientazione un oggetto raro; il film di Sollima è un thriller duro e puro che segnala l’incursione del regista in suolo statunitense (con il suo Soldado, sequel del Sicario di Denis Villeneuve), che fa sua la rigidità e la praticità narrativa del cinema hollywoodiano adattandone i topoi alle dinamiche della criminalità italiana, ai personaggi brutti e cattivi del Bel Paese a cui cuce addosso personalità irresistibili.

Alla Roma crepuscolare e sull’orlo della fine di Adagio fa il paio la Milano minacciosa de L’ultima notte di Amore con protagonista, neanche a dirlo, Pierfrancesco Favino. Il film di Andrea Di Stefano è di gran lunga la cosa migliore capitata al poliziesco italiano degli ultimi anni: una narrazione condensata in una notte supportata da una sceneggiatura da manuale, un protagonista stratificato, ambiguo, credibile.

Vecchie e nuove voci

E se Nanni Moretti torna (letteralmente) ai fasti di un tempo con il film-testamento Il Sol dell’avvenire, nostalgico e citazionista, ancorato al passato, al contempo nuove leve esordiscono e maturano e fanno di tutto per assicurarci (e rassicurarci) un ricambio generazionale che non faccia rimpiangere né il Gabriele Salvatores del buon Il ritorno di Casanova (che con il film morettiano condivide la dolceamara presa di coscienza di un passato che non torna più) né il Marco Bellocchio che nel 2023 sforna un’altra gemma come Rapito.

Tra tutti spicca Pietro Castellitto, che a Venezia con il suo Enea conferma le buone impressioni de I predatori (opera prima del figlio d’arte), si fanno notare all’esordio dietro la macchina da presa Micaela Ramazzotti con Felicità, Giuseppe Fiorello con Stranizza d’amuri, Claudio Bisio con L’ultima volta che siamo stati bambini. Non passano inosservati i primi lungometraggi di Lyda Paticucci (che dimostra di potersi prendere cura del genere crime con Come pecore in mezzo ai lupi), Michele Riondino (che fa cinema di denuncia sociale con Palazzina LAF), Alain Parroni (che dipinge l’impasse generazionale e la dispersione emotiva dei giovani della periferia romana in Una sterminata domenica), Simone Bozzelli (che come Parroni tratteggia un racconto di formazione disfunzionale, enunciando l’impossibilità di liberarsi dalla gabbia del luogo d’origine nel suo Patagonia) e Giacomo Abbruzzese (autore di Disco Boy, coproduzione dal respiro internazionale, psichedelico e visivamente potente).

Al cinema e poco dopo su Netflix è tornata poi tutta la frizzantezza e l’anarchia di Sydney Sibilia, che con Mixed by Erry espande ancora la narrazione di quell’italian dream peculiare della sua produzione; mentre Antonio Albanese si è spogliato delle sue vesti comiche per il toccante e tragico Cento domeniche dopo essersi prestato alla direzione di Riccardo Milani per il confortante Grazie Ragazzi.

Insomma, siamo di fronte a una pluralità di sguardi che non può non essere considerata un fattore, tra nuove e vecchie voci, entrambe energiche, a tratti assordanti, sicuro influenti. Il 2023 del cinema italiano è tutto tranne che crisi di idee per un movimento che non sarà dotato di quella forza archetipica dei tempi migliori, di quelle facoltà visionarie e anticipatorie che lo elevavano ad apripista, a modello tra modelli (chi può farlo nella superficie dell’appiattimento concettuale e della supremazia della tecnica?), ma che torna ad accarezzare il genere, a slabbrare i confini dei canoni che si è imposto, a fare, di nuovo, della qualità l’elemento imprescindibile. Il cinema italiano è morto, lunga vita al cinema italiano.

Fonte : Everyeye