Un colpo di fortuna Recensione: Woody Allen fa di nuovo centro

Per circa quarant’anni Woody Allen ha mantenuto altissimo non solo il ritmo produttivo ma soprattutto quello qualitativo, al netto di alcune sbavature recenti. Il suo cinquantesimo film, Un colpo di fortuna – Coup de Chance (tra i film al cinema a dicembre), sottolinea quanto il suo cinema possa, tra alti e bassi fisiologici, continuare a sorprendere ed esprimere un amore per l’arte che ha pochi eguali. Woody Allen ha compiuto ottantotto anni, e il suo primo film in lingua francese sembra così una summa della sua recente produzione – gli ultimi vent’anni, segnati da numerosi progetti fuori dagli States e la sempre minore presenza in qualità di attore – e l’ennesima, riuscita, variazione sul tema.

È la storia di Fanny Moreau, giovane donna la cui vita scorre a gonfie vele. Almeno finché non incontra per caso Alain, un compagno di classe del liceo che in passato era innamorato di lei. Ben presto le certezze della donna iniziano a crollare e la sua relazione con il marito si sgretola, mentre il rapporto con Alain si fa più intimo. I due uomini sono diversissimi e la frequentazione con il vecchio compagno porta Fanny a riscoprire se stessa e a comprendere maggiormente cosa vuole nel suo futuro. Ma il marito, Jean, con il sentore di qualcosa di losco nell’aria, deciderà di correre ai ripari, sicuro di avere il potere per farlo.

Un colpo… da maestro!

Se è vero che il caso e la sorte sono da sempre stati al centro della produzione alleniana – tra digressioni fantasiose e percorsi alternativi che portano, in un modo o nell’altro, sempre in quella direzione – Un colpo di fortuna sembra riallacciarsi al passato più vicino, in particolare alla trilogia inglese diretta tra il 2005 e il 2007. Opere incentrate sui medesimi temi, come Crimini e misfatti, sfruttavano il crime più come pretesto, fondando la loro efficacia soprattutto sulla propria identità da commedia sofisticata, mentre quest’ultima fatica, invece, appare più radicata nelle premesse oscure e tormentate di Match Point o di Sogni e delitti, tra (s)fortuna e senso di colpa.

Lungi però dal voler pescare dal passato senza rielaborarlo, Allen parte dalle premesse dei thriller britannici e le traveste commedia degli equivoci, equilibrata, con un ritmo incalzante e un linguaggio ancora modernissimo: se prima era la commedia, sempre alla base, a mascherarsi da generi diversi, adesso sembra il contrario. Una lucidità e un’idea di cinema chiarissima, tale da far apparire il regista di New York come l’unico capace di poter dirigere un titolo così. L’unico in grado di poter giostrare in tal maniera i generi e di intrecciare il romantico e la commedia con il giallo e l’ambiguo, senza cedere a nessuno di essi fino in fondo, così che oscure zone d’ombra possano intravedersi, con naturalezza, anche negli ambienti più solari.

Da Londra a Parigi – non più quella nostalgica e magica di Midnight in Paris, come se, una volta modificata la lingua e adottata quella francese, la città fosse diventata più “reale” – ma il copione non cambia: al centro del discorso c’è sempre la società medio-borghese, messa alla berlina quanto quella anglofona. Una società convinta di sapere e potere controllare la propria vita, ignara di non esser altro che vittima di un destino al quale è impossibile voltare le spalle. È un Woody Allen sobrio ma caustico, diretto ma elegante, che ragiona, e gioca, su e con i personaggi e gli ambienti, che riprende personalità e situazioni del passato ma le riassembla in relazione al nuovo contesto.

Sintesi e variazione

Un colpo di fortuna conferma una rinata attenzione del suo autore nei confronti dell’impianto visivo, sulla strada di una ricerca formale iniziata già in Cafè Society e La ruota delle meraviglie. Affidata ancora una volta a Vittorio Storaro, la stratificazione simbolica della fotografia si fa qui ancor più densa e riesce con maestria a raccontare attraverso le immagini non solo ambienti, caratteri ed emozioni, ma forse qualcosa in più della storia narrata, ciò che le parole non dicono.

Erroneamente valutato sempre e solo come un “cineasta di scrittura”, Allen più va avanti con l’età e più sembra volersi spingere leggermente oltre nel lavoro sulla messa in scena che non ne vuol sapere di procedere con il pilota automatico. È encomiabile, tra gli articolati movimenti di macchina e i carrelli che seguono i protagonisti, senza sosta, lo sforzo di un regista che persino alla fine della sua carriera riesce ancora a pensare e dirigere sequenze come quella iniziale. E in un cast nel quale non spiccano pezzi da novanta, si riescono comunque a distinguere prove attoriali di rilievo: tra tutti Melvil Poupaud e una Valérie Lemercier a lezione da Diane Keaton – in uno dei ruoli più tipicamente alleniani – abili nel portare i personaggi oltre i prototipi alla loro base e nell’infondere loro, col passare dei minuti, una caratterizzazione personale e umana, una nevrosi condivisa che sta tutta nei dettagli rivelatori delle personalità – tra tutti, ad esempio, il maniacale controllo del marito sui suoi trenini giocattolo, che mostra come trofeo.

Un lavoro essenziale e ancora una volta appassionante, che conferma quanto possano emergere motivi d’interesse freschi e dinamici in un tessuto narrativo ogni volta simile ma soprattutto come siano le minime deviazioni a fare la differenza per evitare che la sua arte arrivi a impantanarsi nella fissità e nella reiterazione stantia. Parigi fa bene al newyorkese così come gliene faceva quella “Grande mela” che, malinconicamente, non eviterà, forse anche in maniera sarcastica, di citare e ricordare con affetto attraverso la voce di Fanny. Indipendentemente dalla grandezza delle opere e dalla lingua parlata, c’è ancora bisogno del cinema di Woody Allen. Con la speranza che sia un au revoir e non un adieu.

Fonte : Everyeye