Blockout: perché gli utenti stanno bloccando le celebrità sui social

Bloccare le celebrità che non si sono schierate su Gaza. Chiunque abbia frequentato i social network nelle ultime settimane ha sentito parlare di Blockout. Si tratta di un movimento, nato subito dopo il Met Gala, che invita gli utenti a bloccare celebrità e influencer che non hanno ancora parlato del massacro in corso in Palestina.

“Una ghigliottina digitale”, l’ha definita Haley Kalil, la modella e creator che, per prima, ha lanciato l’invito in un video virale su TikTok, poi cancellato in seguito alle polemiche. Il concetto è semplice: bloccare vuol dire ridurre la visibilità potenziale dei contenuti, perché chi blocca non può più vedere post dell’utente bloccato. Questo, se fatto in modo organizzato, dovrebbe poter arrivare a ridurre la visibilità generale dei contenuti del profilo oggetto del blocco. E, in questo modo, abbassare anche le possibilità di monetizzazione.

Ci sono tante questioni che hanno a che fare con il Blockout. È un movimento non così organizzato ed è difficile anche individuare una direzione precisa: ovvero il momento in cui una celebrità diventa potenziale oggetto di “ghigliottina digitale”, per usare le parole di Kalil. È anche un movimento che si presta a tante semplificazioni ma che, in realtà, mi pare esprima due direttrici di analisi, una di natura politica e una tecnologico-sociale.

La politica: un vuoto di rappresentazione

Prima di tutto, quella politica. È evidente a tutti, compresi quelli che al Blockout partecipano, che togliere voce alle celebrità che non si espongono su Gaza non ha un effetto diretto su quanto sta succedendo in Palestina. È vero, però, che una chiave di lettura per comprendere le proteste occidentali per il massacro della popolazione palestinese va cercata oltre gli eventi in Medio Oriente. In questi mesi, Gaza è diventata uno spazio di raccolta di una serie di istanze che chiedono un cambiamento in Occidente: attorno al destino del popolo palestinese, si è raccolta una piattaforma politica, composta soprattutto da giovani, che non si riconosce nei partiti, nei media tradizionali. E che, quindi, cerca risposte e informazioni all’interno dei social media: e ne trova, anche di buone, con tutti i limiti degli spazi digitali.

Questa piattaforma è figlia di una frattura politica e sociale, di narrazioni ufficiali sempre meno convincenti, di un pianeta portato allo stremo dall’ultimo stadio del capitalismo. È il senso del Blockout: le celebrità, in particolare gli influencer in senso stretto, sono un simbolo di questa protesta, di questa necessità di cambiamento. Sono di fatto oggetti di consumo, il cui boicottaggio rappresenta, oltre che una richiesta di schierarsi su un tema da molti percepito come importante, uno spazio di definizione politica.

La tecnologia: perché vogliamo che le celebrità si schierino

Ci sono poi una serie di ragioni di natura tecnologico-sociale. E che, riguardano più di ogni altra cosa, il modo in cui il digitale ha cambiato alla radice la nostra relazione con la realtà che abitiamo. Le ragioni servono a rispondere a un’unica domanda, anche quasi automatica: ma perché Zendaya (o chi per lei) dovrebbe dire qualcosa sulla Palestina? Il fatto che molte persone lo chiedano è figlio di un paio di dinamiche.

La prima ha a che fare con le modalità di fruizione abilitate dai social network e dagli algoritmi di raccomandazione. Ovvero: se io mi interesso a un argomento e, in qualche tempo, quell’argomento diventa una parte consistente della mia dieta mediatica, diventa pian piano più difficile accettare che il resto del mondo non ne parli. Che quella cosa così importante per me venga percepita come irrilevante da qualcuno. O che, addirittura, come nel periodo del Met Gala, quella bolla possa venir contaminata da immagini così distoniche, così distanti da quella realtà che vedo rappresentata ogni giorno.

Magari contaminata da qualcuno, e questa è la seconda ragione, con cui ho un qualche genere di relazione. A cui, nell’intimità abilitata dai social network, sento in qualche modo di essere connesso. Perché almeno nelle piattaforme sociali quel qualcuno non è un’attrice, un attore o un regista: è un personaggio che mima la sua quotidianità, la sua vita di tutti i giorni. E allora perché Zendaya dovrebbe dire qualcosa sulla Palestina? Perché, per colpa o grazie ai social network, ci sembra di conoscerla: è pari, almeno dal punto di vista tecnico, a qualunque altra persona che abbiamo scelto di seguire. Ma Zendaya non è una nostra amica: deve il suo successo a ciascuno di noi che, con le sue interazioni digitali, le ha fornito visibilità. E allora il velo si solleva, quella relazione solo apparentemente costruita intorno alla vicinanza si rivela come una transazione: siamo tutti azionisti di quelle singole aziende personali che chiamiamo influencer o celebrità. E pretendiamo – a ragione? – di avere un peso nelle loro decisioni.

Fonte : Today