Costretto a guardare foto porno al lavoro: la lite finisce davanti al giudice

La storia era finita sulle pagine di MilanoToday. È successo quando Atm, la società comunale del trasporto pubblico, ha diffuso il comunicato numero 40 con cui il direttore del personale vietava all’improvviso l’esposizione di immagini porno nelle stazioni della metropolitana, negli uffici e nei depositi. Come se l’azienda, che è ancora considerata un fiore all’occhiello da molti milanesi, fosse diventata la vetrina di un cinema a luci rosse. Così le foto già appese sono state immediatamente rimosse. Addio al ventre ultrapiatto di Rossana, messa in mostra in bikini. Tolto e stracciato perfino il poster di Aida, che non trattandosi dell’opera prima della stagione alla Scala ha perso la pole position, lungo i binari dell’officina dove vengono controllate e riparate le carrozze del metrò.

La vicenda però, oltre che sulle pagine della cronaca milanese, è finita in Tribunale. Poiché l’esposizione di immagini di donne in posa sexy sarebbe stata accompagnata da discorsi volgari e allusioni discriminatorie da parte dei colleghi ”guardoni” ai danni di un giovane dipendente gay. Una condotta oggi severamente punita, tra gli altri, dal Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (decreto legislativo numero 198/2006) che trasferisce la responsabilità del danno all’azienda: un articolo stabilisce infatti che ”i datori di lavoro sono tenuti ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando… le iniziative più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro” (nelle foto sopra e sotto, le immagini rimosse dall’officina Atm).

I legali di Atm: linguaggio da officina

Atm, chiamata in giudizio per la presunta mancanza di controllo sui propri ambienti e la richiesta di risarcimento del lavoratore maltrattato dai colleghi, non ha smentito la presenza dei poster porno. Tanto che il direttore del personale, con il suo comunicato interno, ne ha ordinato l’immediata rimozione. Ma ha negato l’esistenza di condotte vessatorie e discriminatorie nei confronti del dipendente. Pur ammettendo che il linguaggio in reparto non sia proprio casto: ”Certo, siamo in un’officina meccanica, non si può pretendere un linguaggio particolarmente forbito o del tutto privo di espressioni colorite o financo scurrili, ma da qui alla pubblica derisione di un collega ne passa”, scrivono i legali della società, Margherita Covi e Giovanni Luca Bertone.

Le foto sexy rimosse dallo spogliatoio Atm a Milano (foto Today.it)

Secondo il dipendente, assistito dall’avvocato Domenico Tambasco e da poco assunto a tempo indeterminato come tecnico, non si è trattato di episodi isolati: gli altri colleghi ”parlavano sempre e solo di sesso” e adottavano ”comportamenti degradanti: dalle 14 in poi si parlava soltanto di f…, mostravano porno e commentavano le poche donne che c’erano in officina, dicendo frasi del tipo: me la farei, e poi per mettermi alla gogna mi chiedevano: è tu, te la faresti? Io avevo paura di essere giudicato e all’inizio fingevo di ridere, ma dentro di me piangevo. Correvo in bagno e piangevo”. Stando a quanto è scritto nella sentenza, i colleghi avrebbero cercato di convincerlo anche del fatto che ”gli sarebbero potute piacere le donne”. E, almeno in una circostanza, ”hanno finto di essersi innamorati di lui, per testare le sue reazioni”.

Un caso da manuale, secondo la recente giurisprudenza, apparentemente confermato sia dalla presenza delle foto sexy, sia dall’esposizione in azienda di una sagoma anatomica in legno con le setole di una scopa al posto del pube. Il Tribunale di Milano, però, ha dato ragione ad Atm e respinto la richiesta del dipendente che, secondo la causa, sarebbe stato vessato dai colleghi: il giovane tecnico ha così perso un risarcimento, per la presunta ”nocività dell’ambiente di lavoro e lo stress lavoro correlato”, di circa 290 mila euro.

”Sono immagini offensive della dignità”

La giudice della sezione Lavoro assegnataria del procedimento stabilisce infatti una differenza tra il linguaggio volgare tra colleghi e l’intento vessatorio: ”Può certamente ipotizzarsi che in officina – scrive il magistrato – i lavoratori si intrattenessero in conversazioni o battute a sfondo sessuale, ma non può desumersi che venissero poste in essere sistematiche condotte finalizzate a deridere e a mettere in difficoltà il dipendente in relazione al suo orientamento sessuale”. La giudice ha inoltre accolto l’osservazione di Atm secondo la quale il tecnico, sin dalla sua assunzione, è stato ripetutamente assente per malattia. Assenze dovute a un infortunio sul lavoro, ma anche al clima di scherno e stress.

Il Palazzo di giustizia a Milano (foto Wikipedia)

Nelle motivazioni della sentenza, il Tribunale di Milano sembra voler inoltre interpretare il Codice delle pari opportunità: ”Considerate le dimensioni dell’azienda stessa – scrive quindi la giudice – non era d’altra parte pensabile che venissero svolte in autonomia continue attività di monitoraggio, in ogni singolo ufficio od officina, al fine di eliminare ogni potenziale aspetto di lesività in via anticipata, rispetto alle eventuali segnalazioni dei dipendenti”.

Le stesse immagini, pur essendo ”oggettivamente volgari e offensive per la dignità delle donne”, sostiene il Tribunale, non sono idonee a fondare la responsabilità dell’azienda. Anche perché non si tratta della piccola officina di un meccanico qualunque, ma del reparto dove vengono riparati i treni del metrò. E proprio l’estensione degli spazi, sempre secondo la giudice, ricade a favore di Atm: ”Dalla planimetria del deposito, contenente l’indicazione della collocazione delle immagini, si evince che tali immagini erano distribuite in un ambiente di grandi dimensioni e che solo le immagini di cui alla foto numero 4 si trovavano vicino all’armadietto” del dipendente.

L’avvocato: ”Un salto indietro di mezzo secolo”

L’avvocato Domenico Tambasco, che ha difeso il giovane tecnico di Atm, farà ricorso in appello: ”È una sentenza che enuncia principi ‘regressivi’ – sostiene il legale – che vanno in totale controtendenza rispetto allo stesso orientamento del Tribunale di Milano, che è sempre stato fino ad oggi all’avanguardia nella tutela dei diritti civili, anche sul posto di lavoro. Per nulla condivisibile, in particolare, è la tesi per cui l’incidenza molesta delle immagini a sfondo sessuale sul posto di lavoro sarebbe inversamente proporzionale alla grandezza degli ambienti in cui sono collocate, così come l’ammissione di conversazioni o battute a sfondo sessuale solo perché all’interno di un’officina: come se si trattasse di un ambiente lavorativo a sé, una sorta di zona franca”.

Donne nude in spogliatoio, Atm bacchetta i dipendenti – di F. Gatti

‘Vorrei ricordare – aggiunge l’avvocato Tambasco – che, sul tema, la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro 190/2019 parla di tolleranza zero: nessuna cittadinanza possono avere, in tutti i posti di lavoro, né immagini né discorsi sessualmente orientati. Direi che, con questa pronuncia, facciamo un salto indietro di mezzo secolo. È inconcepibile che tali ‘principi’ possano circolare nell’ordinamento giuridico: faremo certamente appello”. Nel frattempo, almeno nella grande azienda del trasporto pubblico milanese, resta in vigore la libertà di parolaccia.

Fonte : Today