Pannelli solari, cosa può fare l’Europa per smarcarsi dalla Cina

Il 3 aprile la Commissione europea ha avviato due indagini su altrettante società cinesi produttrici di pannelli solari sospettate di aver ricevuto sussidi statali dall’estero. Benché possa apparire come una mossa motivata da intenti puramente economici – garantire la parità di condizioni tra le aziende che competono sul mercato unico –, la doppia inchiesta ha anche una ragione politica. Il commissario al mercato interno Thierry Breton ha infatti dichiarato che “i pannelli solari sono diventati strategicamente importanti per l’Europa”: le indagini non riguardano una merce qualunque, insomma, ma un prodotto critico per la generazione energetica, l’occupazione e la sicurezza del blocco.

I dispositivi fotovoltaici svolgeranno un ruolo primario nella decarbonizzazione del sistema elettrico europeo al 2030. Il problema è che l’anno scorso più del 97% dei pannelli solari installati nell’Unione erano stati precedentemente importati, innanzitutto dalla Cina che ne è la maggiore produttrice al mondo. È un problema perché la transizione ecologica, oltre a ridurre le emissioni, dovrebbe rafforzare la sicurezza energetica dell’Europa; ma allo stato attuale delle cose Bruxelles rischia di sostituire la dipendenza da Mosca per il gas con una dipendenza da Pechino per le tecnologie verdi: batterie, veicoli elettrici, turbine eoliche, moduli solari.

La crisi dell’industria solare europea

Per non mancare la rivoluzione industriale della sostenibilità, circa un anno fa la Commissione europea ha presentato una legge – il Net-Zero Industry Act – per stimolare la manifattura delle cosiddette clean tech, fissando anche degli obiettivi minimi di produzione interna: entro il 2030 l’Unione dovrà produrre da sé il 40% dei dispositivi utili alla decarbonizzazione.

A febbraio il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo sul Net-Zero Industry Act. Intanto, l’industria fotovoltaica europea è sull’orlo del precipizio. Lo dice l’European Solar Manufacturing Council, l’associazione di rappresentanza del settore, che avverte: in assenza di misure eccezionali di sostegno, l’impossibilità di competere con i materiali e i pannelli cinesi – abbondanti e a prezzi convenientissimi – porterà le aziende del Vecchio continente a dichiarare bancarotta oppure a trasferirsi negli Stati Uniti per accedere agli incentivi dell’amministrazione Biden. Effettivamente, la società norvegese Norwegian Crystals ha presentato richiesta di fallimento. Rec, norvegese anch’essa, ha interrotto le attività in uno stabilimento. La francese Systovi è in cerca di un acquirente. La svizzera Meyer Burger ha deciso di chiudere una grossa fabbrica in Germania per concentrare gli investimenti in America.

Il ruolo della Cina

La crisi, dunque, è generale. I cinesi hanno un vantaggio di costo che sembra imbattibile: riescono a costruire pannelli solari a 16-18,9 centesimi per watt di capacità di generazione, mentre le aziende europee sono intorno ai 24-30 centesimi per watt. In Cina la manodopera costa meno, ma soprattutto costa meno l’elettricità che alimenta le fabbriche, in gran parte fornita dal carbone; lo stato, poi, offre alle imprese terre a prezzi di favore e prestiti a tassi vantaggiosi. In Europa è il contrario: l’elettricità è cara – la produzione del polisilicio, la materia prima dei pannelli, ne consuma tanta – e i terreni industriali pure.

Fonte : Wired