Jonathan Haidt: “Una generazione ansiosa per colpa di smartphone e genitori iperprotettivi”

Una ragazza, triste, con il volto illuminato soltanto dalla luce dello smartphone immersa, quasi sprofondata in un mare di emoji. La casa editrice americana che ha pubblicato l’ultimo libro di Jonathan Haidt è riuscita a far emergere fin dalla copertina la tesi che lo psicologo sociale che insegna psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University, porta avanti da anni: l’uso sempre più diffuso dei device e dei social media dagli anni ’10 del 2000 in poi è significativamente correlato all’incremento progressivo dei livelli di depressione, ansia e autolesionismo tra gli adolescenti.

Il libro, intitolato The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness, cita diverse ricerche universitarie a sostegno della sua tesi.

Negli Stati Uniti i tassi di depressione e ansia negli Stati Uniti – abbastanza stabili negli anni 2000 – sono aumentati di più del 50% dal 2010 al 2019. Il tasso di suicidi è cresciuto del 48 %per gli adolescenti dai 10 ai 19 anni. Per le ragazze dai 10 ai 14 anni, è aumentato del 131. L’italia purtroppo conferma il trend: da inizio pandemia a oggi, per esempio, sono aumentati del 40% di accessi di giovani e giovanissimi al Pronto soccorso del Bambino Gesù per ansia o tentativi di suicidio.

Secondo Haidt gran parte di questa impennata dei dati è dovuta proprio alla crescita dell’uso degli smartphone e alla diffusione pervasiva di un approccio iperprotettivo alla genitorialità, entrambi fatti che concorrono alla graduale riduzione del tempo che i giovani trascorrono offline. Questo scenario potrebbe essere responsabile di una sorta di “rimodellamento” delle connessioni sinaptiche durante i primi anni di vita e l’adolescenza, portando a un incremento dei disturbi mentali.

Nel suo ultimo libro lo psicologo arriva a sostenere che i giovani di oggi – in particolare quelli appartenenti alla Generazione Z – sono “prodotti danneggiati di un enorme cambiamento nella cultura dell’infanzia”. Nati alla fine degli anni ’90 da genitori timorosi e iperprotettivi, sarebbero cresciuti, a differenza dei baby boomer e della Generazione X, con una supervisione quasi costante degli adulti. Sono diventati la prima generazione di preadolescenti e adolescenti a passare l’adolescenza sotto il dominio degli smartphone, formando le loro identità nell’universo in gran parte non regolamentato e poco compreso dei social media. La tossica combinazione di “iperprotezione nel mondo reale e sotto-protezione nel mondo virtuale” (parole di Haidt) li ha resi super-ansiosi. Il tempo trascorso davanti agli schermi e lontani dalle interazioni di persona ha contribuito a isolamento, depressione, mancanza di sonno, attenzione frammentata, e li ha resi dipendenti dai colpi di dopamina dei like, retweet e commenti.

“La Generazione Z – scrive – è diventata la prima generazione nella storia a passare attraverso la pubertà con un portale nel loro taschino che li chiamava lontano dalle persone vicine e in un universo alternativo che era eccitante, dipendente, instabile” e “non adatto per bambini e adolescenti”. Il grande ricondizionamento dell’Infanzia, in cui l’infanzia basata sul telefono ha sostituito l’infanzia basata sul gioco, è la principale causa dell’epidemia internazionale di malattie mentali adolescenziali”.

Ma le teorie di Haidt non sono apprezzate da gran parte del mondo scientifico che lo taccia di unire innumerevoli ricerche in modo casuale per sostenere le sue convinzioni.

Però, anche se si mettono in discussione i dettagli su come Haidt analizza e suddivide i suoi dati (per generare quei numeri impressionanti sulla depressione, ad esempio, include dati del 2020 e del 2021 – anni di stress fuori scala a causa dell’inizio della pandemia), non c’è dubbio che i giovani di oggi stiano attraversando una crisi di salute mentale senza precedenti per portata e gravità. Le ultime statistiche sono terribili: secondo il National Survey on Drug Use and Health del 2022, ad esempio, quasi 1 su 5 degli adolescenti dai 12 ai 17 anni negli Usa ha avuto un episodio depressivo maggiore nell’ultimo anno.

Ma dimostrare la causalità (piuttosto che la mera correlazione) è una proposizione incerta. È particolarmente rischioso per Haidt di fronte a un ampio corpus di letteratura accademica sui danni psicologici dei social media che è al massimo ambigua.

Secondo un articolo del Washington Post lo psicologo riconosce tutto questo e cerca di aggirare il problema con la semplice quantità di prove correlate che raccoglie e combina con esperimenti di laboratorio condotti con Twenge. Si concede anche una via d’uscita comoda, dicendo che “sicuramente si sbaglierà su alcuni punti”; ha persino istituito un sito di ricerca che manterrà, invitando altri ricercatori a esprimersi. Un’abile strategia di marketing. Nel “Grande Ricondizionamento” – aggiunge la giornalista del WP – Haidt dedica i primi due terzi del libro a scrivere in modo difensivo, come se si rivolgesse a un pubblico di detrattori in attesa di coglierlo in fallo.

In effetti questi detrattori esistono: negli anni Haidt ne ha accumulato un bel gruppo (la folla che dice “i ragazzi stanno bene”, li chiama lui) che lo hanno accusato di scegliere esempi ad hoc, di adattare vecchi e stanchi argomenti su “i giovani di oggi”, e di alimentare “panico morale” sulla nuova tecnologia per gonfiare il proprio ego e tenere giù la Generazione Z.

Candice L. Odgers, vicepreside e professoressa di scienze psicologiche e informatica all’Università della California, scrive in un articolo sulla rivista scientifica Nature: “Haidt afferma che la grande riconfigurazione dei cervelli dei bambini è avvenuta attraverso “la progettazione di un getto d’acqua di contenuti ad alta dipendenza che entravano attraverso gli occhi e le orecchie dei bambini”. E che “sostituendo il gioco fisico e l’interazione sociale in persona, queste aziende hanno riconfigurato l’infanzia e cambiato lo sviluppo umano su una scala quasi inimmaginabile”. Affermazioni così serie richiedono prove altrettanto serie”.

Lo psicologo e scrittore non manca di rispondere a chi lo critica: “Sono uno psicologo sociale sempre cauto di fronte a spiegazioni mono-fattoriali per fenomeni sociali complessi. Nel mio nuovo libro mostro che siamo passati da un’infanzia basata sul gioco che coinvolgeva molto gioco rischioso non supervisionato, essenziale per superare la paura e la fragilità, a un’infanzia basata sul telefono che blocca lo sviluppo umano normale prendendo tempo dal sonno, dal gioco e dall’interazione sociale in persona, oltre a causare dipendenza e sommergere i bambini in confronti sociali che non possono vincere. Quindi questa non è una storia mono-fattoriale, ma riguarda ciò che credo sia il fattore singolo più grande e l’unico in grado di spiegare perché l’epidemia sia iniziata così improvvisamente, intorno al 2012, in più paesi”.

Fonte : Repubblica