Lavoratrici a domicilio, fabbriche di mattoni, piantagioni: il 1 maggio delle periferie

Nel giorno in cui anche tra i politici locali abbonda la retorica sul lavoro, in Pakistan e nello Sri Lanka le categorie più indifese hanno provato a far sentire la propria voce. P. Bonnie Mendes: “Anche la Chiesa dovrebbe valorizzare di più la festa di San Giuseppe Lavoratore per difendere la loro dignità”.

Faisalabad (AsiaNews) – Anche in molti Paesi dell’Asia ieri il Primo maggio è stato contrassegnato dalle celebrazioni e dalle parole dei politici sul lavoro. In molti casi ascoltate con grande amarezza in quelle realtà dove i diritti e la dignità della persona sono meno rispettate.  

Parlando con AsiaNews, p, Bonnie Mendes, sacerdote da decenni in prima linea nelle battaglie sociali in Pakistan, commenta: “Come molte altre giornate internazionali, per la Giornata dei lavoratori ci sono solo dichiarazioni simboliche da parte del governo; ma al di là di questo non emerge nulla di concreto. I sindacati non esistono e il Partito dei lavoratori è debole. La Chiesa stessa dovrebbe utilizzare meglio la festa di San Giuseppe Lavoratore per raggiungere i lavoratori: non basta celebrare una Messa per l’occasione. Oggi sarebbe un giorno festivo in Pakistan, ma vediamo benissimo tante persone che lavorano anche in questo giorno per guadagnare qualcosa per le loro famiglie. Solo buone politiche e la loro attuazione potrebbero dare speranze per il futuro dei lavoratori”.

Due esempi concreti riguardano i diritti delle donne che lavorano in casa e di quanti lavorano in condizioni di semi-schiavitù nelle fabbriche di mattoni. La direttrice esecutiva dell’Association of Women for Awareness and Motivation (AWAM), Shazia George, ha rinnovato in occasione del Primo maggio la richiesta ai decisori politici del riconoscimento dello status delle donne che prestano la loro opera in casa per conto delle aziende: “L’impossibilità per le lavoratrici a domicilio di accedere ai benefici della sicurezza sociale e ai programmi di protezione – spiega – sottolinea l’urgente necessità di un quadro giuridico completo. Serve un’attenzione immediata da parte delle autorità e dei decisori per salvaguardare i diritti fondamentali di queste lavoratrici”.

Da parte sua Asghar Shaheen, rappresentante di Freedom Bhatta, il sindacato dei lavoratori delle fornaci di mattoni, commenta: “Nonostante la presenza sulla carta di un quadro giuridico e di una politica chiara per i lavoratori delle fornaci di mattoni, essi spesso non sono in grado di ricevere i salari previsti dalla direttiva governativa e non hanno accesso ai benefici della sicurezza sociale”. Ha esortato il governo a prendere provvedimenti immediati per garantire il rispetto delle norme e proteggere i diritti dei lavoratori, in particolare contro il grave sfruttamento del lavoro minorile nelle fornaci che richiede un’azione rapida e punitiva contro i responsabili.

Toni simili hanno caratterizzato anche le prese di posizione in occasione della festa del Primo maggio tra i lavoratori tamil delle piantagioni dello Sri Lanka. “Senza il riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone che lavorano nei settori che sostengono l’economia del Paese, le celebrazioni che si susseguono anno dopo anno del governo non hanno alcun senso. È lecito chiedersi se esista un ‘diritto morale’ a celebrare il Primo maggio in questo modo”, denuncia la Voice of the Plantation People Organization (VOPP), la storica organizzazione fondata nei distretti di Galle e Matara, per il benessere dei Malaiyaha che duecento anni ormai vivono nella provincia meridionale dello Sri Lanka.

“Qui il lavoro non significa altro che sfruttamento e non gode di alcun ragionevole riconoscimento, rispetto o considerazione – continua Voice of the Plantation People Organization -. Non abbiamo case adatte per vivere dignitosamente, non c’è alcun diritto legale sulla terra. Poiché negli uffici governativi e negli ospedali si usa solo la lingua sinhala, i tamil incontrano difficoltà per qualsiasi servizio. Ancora oggi, i lavoratori non delle piantagioni non ricevono un salario giornaliero all’altezza dell’economia attuale. Senza alcun programma di sviluppo le donne malaiyaha sono costrette ad emigrare all’estero e la vita dei loro figli è rovinata”.

Fonte : Asia