Cosa fare se il capo non mi aumenta lo stipendio

Ebbene sì, fischiare non fa bene solo al morale. In alcuni casi, infatti, fischiare può salvare il posto di lavoro. Ce lo insegnano gli anglosassoni che, con il termine whistleblowing (to blow the whistle, che significa appunto fischiare, suonare il fischietto) indicano quell’insieme di norme volte a tutelare dalle rappresaglie i dipendenti che abbiano segnalato gli illeciti appresi all’interno dell’ambiente lavorativo. In Italia siamo meno originali e, di conseguenza, ci limitiamo a parlare di “segnalanti”: è questo, infatti, il termine utilizzato dal decreto legislativo 10 marzo 2023, numero 24, che ha da poco compiuto un anno.

Si tratta della prima disciplina organica in materia che, su impulso dell’Unione Europea (essendo figlia della direttiva Ue 2019/1937), ha modificato in profondità un ambito che, in precedenza, era regolamentato in modo frammentario e parziale. Diciamola tutta: sul whistleblowing, almeno negli ultimi tempi, sono state più le parole spese che i fatti.

Il coraggio di denunciare: cosa dice la legge

Rarissime, infatti, sono le sentenze perché ancora pochi conoscono la materia e ancor meno la applicano per risolvere situazioni lavorative complicate. Eppure, è il caso di dirlo, si tratta di norme innovative che, se correttamente utilizzate, potrebbero fare davvero la differenza. Parliamo soprattutto delle ritorsioni o rappresaglie lavorative. Chi nella propria vita non ne ha sperimentata una? Facciamo un esempio.

Al Pacino e Russel Crowe nel film di Michael Mann ''The Insider'' (1999, foto Wikipedia)

Il vostro responsabile “prende le mazzette” su ogni commessa. Lo sanno tutti in ufficio, ma nessuno ha il coraggio di parlare. Eppure, quando lo vedete contare le banconote nella busta appena ricevuta, vi ribolle il sangue. Decidete di denunciare tutto, presentando una segnalazione sulla piattaforma whistleblowing che l’azienda ha da poco reso disponibile sulla rete intranet. Alcune settimane dopo la segnalazione, vi arriva la risposta: siete stati trasferiti in un’altra unità operativa (nella foto sopra, Al Pacino e Russel Crowe nel film di Michael Mann ”The Insider”).

Si tratta di una tipica rappresaglia lavorativa. Non siete tuttavia privi di difesa, perché proprio il recente decreto legislativo 24/2023 presume che il mutamento del luogo di lavoro successivo alla segnalazione di whistleblowing sia da considerarsi un’autentica ritorsione (articolo 17, commi 2 e 4), ovvero sia un ”comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o della divulgazione pubblica e che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto” (articolo 2, lettera m). Il trasferimento, pertanto, sarà nullo (articolo 19 comma 3), a meno che il datore di lavoro non riesca a provare l’esistenza di ragioni estranee alla segnalazione (articolo 17, comma 2): è quella che, in gergo tecnico, viene definita ”prova diabolica”.

Come calcolare il danno di un’ingiusta decisione

Non solo: in questa ipotesi, anche il danno che avete subito si ritiene presunto ai fini della relativa richiesta risarcitoria (articolo 17, comma 3). Non è tutto, però. La neonata normativa va oltre lo specifico ambito delle segnalazioni di whistleblowing, disciplinando più in generale l’importante materia dei licenziamenti ritorsivi.

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Facciamo un altro esempio, che può aiutare a capire le cose meglio di noiose e pedanti definizioni. Avete appena rivendicato legittimamente un aumento retributivo, lamentando il fatto che i vostri colleghi che svolgono le stesse mansioni vantano un inquadramento superiore al vostro. Il capo, per tutta risposta, il giorno successivo vi consegna una lettera. Bene, direte voi, ha finalmente capito quello che volevo dire, e mi ha prontamente riconosciuto l’aumento. Purtroppo, aprendo la busta, capirete che non è così: il capo vi ha cambiato la vita, certo, ma non aumentandovi lo stipendio, bensì licenziandovi per ”ragioni tecnico-organizzative”: ha soppresso la vostra posizione lavorativa per una improvvisa ”riorganizzazione aziendale”, così dice.

Al di là delle ingannevoli formule tecniche, siete invece di fronte a un classico caso di ritorsione lavorativa, definito più solennemente dai giudici come ”l’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a esso legata e pertanto accomunata nella reazione” (Cassazione 9 gennaio 2024, numero 741).

Cosa fare contro le ritorsioni del capoufficio

Cosa fare a questo punto? Disperarsi è inutile. Meglio prendere in mano la legge sul whistleblowing e leggere l’articolo 24 che, provvidenzialmente, ha inserito poche parole salvifiche: è nullo il licenziamento ”conseguente all’esercizio di un diritto”. Si tratta della modifica all’articolo 4 della legge 604/1966 che di fatto, a partire dal 15 luglio 2023, ha equiparato i licenziamenti ritorsivi (ovvero quelli conseguenti all’esercizio di un diritto) a quelli discriminatori. Con la rilevante conseguenza che, in questo caso, non solo avrete diritto alla piena reintegra (con il pagamento di tutte le retribuzioni e i contributi maturati fino alla data della effettiva riammissione in servizio) ma, soprattutto, l’onere della prova sarà di fatto prevalentemente a carico del datore di lavoro (si parla in questo caso di onere probatorio attenuato).

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Basterà in questo caso, infatti, dimostrare di aver esercitato un diritto poco prima di aver subito il licenziamento per scaricare sul datore di lavoro, in modo definitivo, il peso di provare l’inesistenza di una ragione ritorsiva. Si tratta di una bella differenza. Una nota pubblicità degli anni Ottanta diceva che ”una telefonata allunga la vita”. Oggi la situazione si è semplificata: basta un fischio, per allungare la vita lavorativa.

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Fonte : Today