5 film sconosciuti sui samurai se avete amato Shogun

Non erroneamente, il jidaigeki (da tradurre come “dramma storico”) e il chanbara sono stati a lungo considerati i generi più rappresentativi della cinematografia nipponica. Non a caso, per molto tempo circa la metà delle produzioni erano in costume. Nel corso dei decenni, tra molti alti e qualche rilevante punto basso – tra questi ultimi, le censure nel dopoguerra e una stanchezza delle produzioni di genere storico, conseguenza della crisi dell’industria cinematografica del Sol Levante in generale, tra la fine degli Anni Settanta e i Novanta – numerose sono state le rimeditazioni e le contaminazioni con altre tendenze e idee filmiche: dai toni epici a quelli più intimisti, dallo sperimentalismo minimalista alle opere più politiche, passando per l’incontro dialogico con le acrobazie del wuxiapian sino-hongkonghese, la wilderness del western o l’interiorità drammatica europea.

In occasione del successo dello show su Disney Plus (ecco la nostra recensione di Shogun), si propongono di seguito alcune opere sui samurai sconosciute ma non per questo poco rilevanti, elencate in ordine cronologico, dagli Anni Quaranta fino ad arrivare alle al contemporaneo. Inevitabilmente, non sono titoli considerabili in assoluto tra i migliori film sui samurai – già, recentemente, oggetto dei 5 film di samurai da vedere se vi piace Rise of the Ronin – ma cinque meno noti al grande pubblico, di cui uno è una vera e propria scelta jolly con la quale osare e stimolare la riflessione sullo statuto di questo sottogenere. Tutti, ça va sans dire, provenienti dal Giappone.

Gli uomini che mettevano il piede sulla coda della tigre

Non è facile non pensare ad Akira Kurosawa quando si parla di film sui samurai. Tale nome è associato ad alcuni dei più importanti titoli del genere e più in generale della storia del cinema del Novecento. I suoi primi lavori, sovente non troppo considerati, mostrano già dai primi anni di attività – dopo esser stato assistente alla regia in circa una ventina produzioni – un’espressività e una poetica già fuori scala. Tra essi, Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (noto anche come Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre), del 1945, è uno tra i meno popolari, anche per via delle sue travagliate vicende: girato con mezzi di fortuna, il film trovò l’ostacolo sia della censura militare locale che delle forze d’occupazione americane.

Fino al trattato di San Francisco (1951, anno in cui il cinema giapponese uscì finalmente dai propri territori per affacciarsi al mondo) l’opera restò sostanzialmente ignota e una volta arrivata in sala, l’anno successivo, non riuscì ad imporsi soprattutto perché, prodotta anni prima, sembro “vecchia” davanti ad opere dello stesso regista, in quel momento al cinema (L’idiota, tratto da Dostoevskij, e, di lì a poco, Vivere).

Adattamento di un dramma kabuki (a sua volta desunto da un’opera noh del tardo Quattrocento), il film si discosta dal testo d’origine non solo per alcuni elementi più comici, visti fuori luogo per un testo di natura storica, ma soprattutto per lo spirito quasi ribelle del suo autore. Kurosawa sembra divertirsi nel prendere in giro e farsi beffe del potere, di una sorta di sacralità quasi intoccabile, nel mostrare le criticità di una nazione, soprattutto del suo passato culturale e delle sue tradizioni. Un progetto a suo modo rivoluzionario (pochi avevano pensato di mettere così in cattiva luce certi dogmi), anticipatore di temi e caratteri che ricorreranno nella sua filmografia – con uno sguardo rivolto, ancora, alle avanguardie artistiche, come l’espressionismo, evidente soprattutto nell’uso dell’illuminazione e delle scenografie.

La storia di Zatoichi

Quello del samurai cieco non è un nome nuovo per i più avvezzi al cinema orientale contemporaneo: Zatoichi, importante icona culturale per l’epoca, è stato al centro dell’omonimo lungometraggio diretto e interpretato da Takeshi Kitano, più un ulteriore capitolo, il ventisettesimo, della saga che un remake moderno – sono ventotto i film incentrati sul ronin (samurai senza padrone) vagabondo, tutti più o meno indipendenti anche se legati da una flebile ma comunque presente orizzontalità. Il primo di essi, La storia di Zatoichi, diretto nel 1962 da Kenji Misumi, lavora in maniera eccezionale sulla costruzione della psicologia inquieta del protagonista, una sorta di punto di riferimento per il pubblico di quegli anni.

In un momento storico di ricostruzioni, disillusioni e crisi identitarie per l’intero Giappone (al centro delle opere di molti altri autori nipponici, come ad esempio, tra i tanti, Nagisa Oshima), Zatoichi – un grandissimo Shintaro Katsu – non nasconde le ambiguità e rende ancora più labile il confine tra idealismo romantico e rozza decadenza, tra libertà dell’indipendenza e una devastante solitudine. Contraddizioni di chi, in fondo, un samurai vero e proprio non è e vive per sé stesso, gioca d’azzardo ma è pronto a difendere il più debole, non per onore ma quasi per una sorta di rispetto per gli chi, come lui, è relegato tra gli “ultimi”.

Il mondo descritto nel primo (il migliore) capitolo della serie è sporco e corrotto, costringe alla violenza e non risparmia nessuno: scenario perfetto sia per lo spettacolo più action – specie nelle battute finali, dove la regia dà il meglio di sé – che per il focus più introspettivo, aiutato da un eccellente montaggio che non perde mai di vista la tensione che deriva dai particolari, dai gesti. Pur andando incontro agli inevitabili cliché di questo tipo di narrazioni, La storia di Zatoichi trova la sua dimensione ideale soprattutto nella diretta e concisa semplicità che proprio il modello seriale predilige.

Là dove volano i corvi

Come accennato, il cinema di samurai ha, nel corso del tempo, incrociato le strade di generi differenti. L’incrocio con il western, ad esempio, ha offerto nuove possibilità espressive, in particolar modo all’inizio degli Anni Settanta. Là dove volano i corvi (noto soprattutto con il titolo originale, Goyokin) è un esempio perfetto di questa contaminazione, anche per via dell’utilizzo che fa del formato Panavision. Il film del 1969, diretto dal mai abbastanza elogiato Hideo Gosha, pur nella sua linearità, prende il meglio dalle culture cinematografiche del tempo e lo sfrutta per mettere in scena una malinconica ballata sull’onore del guerriero (il cosiddetto bushido) e su cosa vuol dire essere un samurai, portare una spada e fare i conti con il passato, mai del tutto lasciato alle spalle.

In anni in cui il discorso politico era molto meno rischioso da mettere in scena, Gosha mette parzialmente da parte l’elogio della violenza del suo cinema per dedicarsi al dramma interiore, alla ricerca di riconciliazione e pace, ostacolata da un sistema marcio che, interessato quasi esclusivamente alle finanze, sta perdendo ogni briciolo di umanità. Un tormento che intreccia le storie e coinvolge più attori sociali, tutti tenuti in piedi da equilibri precari pronti ad essere lacerati fatalmente.

Da ciò non emerge però una netta dicotomia tra bene e male (anche se ad uscirne con le ossa rotte è la reputazione dello shogunato, reo di restare indifferente e guardare a distanza), l’indagine si snoda lentamente attraverso le zone grigie della moralità, perché per sopravvivere in un contesto ostile come questo forse serve adattarsi e piegarsi. Ma il senso generale di disperazione non intacca le scene d’azione, alcune delle quali sono alternate con degli studiatissimi ed evocativi momenti di stasi strategica, ripresi con una rigorosa cura scenica che esalta soprattutto gli spazi e la posizione dei corpi all’interno di essi.

Why don’t you play in hell?

Ad un primo impatto si può dire di tutto, tranne che questo sia un film di samurai. Ma tra la commedia, la frenesia del coming of age e gli yakuza (c’è davvero di tutto!) Why don’t you play in hell? può dirsi, anche se con un po’ di sforzo, un film di samurai, certo non convenzionale ma molto contemporaneo. Il cinema del suo autore, quel Sion Sono che in Italia ha avuto pochissima distribuzione, è tutt’altro che classificabile (e questo aiuta a catalogare le sue opere, associabili ad uno come ad un’altro genere), mai domo e dalla personalità sui generis. Tratti tutti presenti nel film del 2013, nel quale raggiunge alcune delle vette del suo cinema (il cui punto più alto è, probabilmente, sempre Love Exposure) e riflette sulla stessa pratica del fare film. Fare film di samurai, tra l’altro.

Sono ha un controllo dei personaggi e delle storie e delle immagini da manuale, capace di tenere tutta questa densità insieme e farla funzionare con precisione, anche quando sembra che nulla sia sotto controllo e che le briglie siano state sciolte. Il suo cinema è come una grande caricatura che però, come in questo caso, non dimentica la tradizione artistica nipponica e opera un omaggio al samurai non con i toni della nostalgia ma con un approccio postmoderno e fresco. E lo scontro-duello finale è l’esempio perfetto di come rendere onore al chanbara con le sue stesse idee.

Fuori dall’ordinario, Why don’t you play in hell? esaspera non solo l’arte del suo autore ma persino gli stilemi dei samurai: quelli descritti dal regista non sono guerrieri con onore e dignità ma yakuza non troppo svegli, che si vestono come i loro corrispettivi antichi ma dei quali sembrano più una parodia. Non sarà un film di samurai, come tradizionalmente inteso, ma più una follia lucida che con i samurai gioca e si diverte. E almeno una volta, pur di non proporre sempre gli stessi titoli, potrebbe anche andare bene così.

Killing

Un film come questo, in questo modo, pochi registi oltre Shinya Tsukamoto possono pensarlo. Già a partire dal titolo originale, Zan, traducibile come “taglio”: al centro c’è il mezzo con il quale difendersi, fare sfoggio di abilità ma anche ferire, uccidere. Qui esso è rappresentato dalla spada/katana che, come spesso nel jidaigeki, è non solo al centro di un vero e proprio culto ma diventa anche un prolungamento del corpo e dello spirito. Fin dagli esordi, Tsukamoto mostra sempre tali estensioni (la spada o, in quel caso, la macchina) come il male da provare a rigettare; un male che però non sempre si riesce a tenere lontani e che nel passato come nell’era contemporanea, porta ad una deformazione dello spirito e ad una disumanizzazione.

Il suo secondo capitolo della trilogia sulla violenza e la guerra (iniziato con Fires on the plain e conclusa di recente con Shadow of Fire, tra i film del 2023 non ancora usciti in Italia) indaga le sfaccettature dell’animo umano, il sottile confine tra la lucidità e la follia, in un’epoca di transizione – la fine del Periodo Edo e l’inizio dell’Età moderna, nella seconda metà del XIX secolo, corrisponde all’avvento dell’Era Meiji, con tutti i cambiamenti, specie morali e sociali, che essa porta – instabile e nevrotica come lo stile del cineasta.

Una camera-occhio, spesso a mano, tormentata anche nell’apparente quiete, una poetica espressiva che esalta la crisi nervosa dello sguardo e della psiche, anche quando, come in quest’opera, lo stile si fa, almeno rispetto al passato, più rarefatto. Tsukamoto straccia le prospettive sul passato del Giappone, sempre permeate da un rispetto ossequioso, e le investe con la sua peculiare grinta ancora punk. Un conflitto interiore, quello relativo all’uccidere, che è riflesso degli errori di un mondo che ci vuole macchine (termine non casuale) senza pietà, fratricide, da contrapporre ad un’umanità difficile da mantenere viva.

Fonte : Everyeye