Petrolio, in Ecuador sta uccidendo la foresta amazzonica

Non chiediamo che smettano di estrarre petrolio, ma che smettano di farlo con metodi criminali, che violano i diritti fondamentali di centinaia di persone e dell’ambiente”. A dirlo a Wired è Pablo Fajardo durante un’ intervista. È un avvocato che da 30 anni lotta per la difesa dei popoli indigeni dagli abusi delle imprese petrolifere che operano nell’Amazzonia ecuadoriana. Aveva poco più di 25 anni quando fece causa al colosso americano Texaco (oggi Chevron) per i danni irreversibili causati a centinaia di comunità indigene dall’inizio della sua attività estrattiva, negli anni Sessanta del Novecento. Durante i suoi trent’anni di attività, la compagnia ha sversato più di 18 miliardi di litri di acqua tossica e migliaia di barili di petrolio nei fiumi e liberato migliaia di metri cubi di gas tossici nell’aria, violando i diritti delle popolazioni indigene locali.

Oggi Pablo continua a lottare insieme al team Udapt (Union de Afectados por Texaco/ Unione delle vittime di Texaco)), ong da lui fondata per tutelare le comunità amazzoniche i cui diritti fondamentali continuano ad essere calpestati dalle imprese. Il nordest dell’Ecuador, infatti, è una terra ricca di idrocarburi, prevalentemente abitata da popoli come i Siona, Kofan, Shuar, Siekopai e Achuar che da migliaia di anni vivono in completa armonia con la natura, cacciando, pescando e coltivando banane e yuca. Ma da quando Texaco ha scoperto l’enorme ricchezza che giace sotto i loro piedi, nel 1964, questa gente non ha più avuto pace. Oggi Texaco non opera più in Ecuador, ma decine di imprese nazionali e multinazionali si arricchiscono ispirandosi al suo modello d’estrazione intensiva e violenta, perseguendo come unico obiettivo quello di depredare le risorse senza alcun rispetto per le popolazioni locali.

In Amazzonia ci sono fuochi “eterni”

Lo dimostra una pratica comune a tutte queste imprese: il gas flaring. Si tratta di un processo attraverso il quale vengono bruciati all’aria aperta i gas derivati dall’estrazione del petrolio, gas che contengono oltre 250 tossine altamente cancerogene. Questi fuochi perpetui, nella maggior parte dei casi situati in prossimità di villaggi o scuole, illuminano i cieli amazzonici 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Considerato che la portata contaminante di molti di questi gas arriva ad avere un raggio di 25 chilometri, è facile immaginare le conseguenze che possono avere sulle persone che vivono nelle zone limitrofe, sui fiumi, gli animali, le piante, e l’aria.

A livello ecosistemico, la biodiversità locale è profondamente compromessa a causa delle alterazioni dei microclimi, le piogge acide, la mutazione fisico-chimica del suolo e dell’acqua pluviale e il conseguente impoverimento delle colture. Una delle conseguenze più dannose per gli esseri umani è il deposito di particelle tossiche sui tetti delle case. Poiché l’acqua dei fiumi è troppo contaminata per essere bevuta, la maggior parte delle famiglie raccoglie acqua piovana per il consumo quotidiano che, a contatto con le particelle depositate, si contamina causando malattie a chi la consuma. L’incidenza dei tumori nella zona è spaventosamente alta: nelle province di Orellana e Sucumbios, nel 2021 sono stati rilevati circa 250 casi di cancro, il 70% dei quali nelle donne. Ma c’è la beffa oltre al danno: i malati di cancro non hanno un posto dove curarsi. “Lo Stato ecuadoriano garantisce solo due giorni di chemioterapia a proprie spese nella capitale Quito, situata a circa 10 ore di autobus dalle regioni in questione. Ogni giorno in più sarà pagato dal paziente. Inutile dire che quasi nessun abitante di questa regione ha i mezzi economici per coprire i costi aggiuntivi del trattamento!”, spiega Patricia, coordinatrice del personale medico di Udapt: “Questo si traduce in un tasso di mortalità altissimo tra i malati oncologici che vivono in queste regioni”.

Fonte : Wired