Il Governo Meloni apre i consultori agli antiabortisti: di cosa ci stupiamo?

Davvero ci stupiamo dell’emendamento al dl Pnrr, approvato in commissione Bilancio alla Camera, che prevede che le associazioni pro-vita – o antiabortiste, che dir si voglia – possano entrare nei consultori italiani? Per chi è abituato, anche solo un minimo, a seguire le mosse del Governo Meloni sul tema maternità e famiglia, quest’ultima risulta coerente con quanto fatto fino ad ora. Anzi, se proprio vogliamo trovare un’incoerenza – come ha fatto notare la segretaria del Pd Elly Schlein – è quella relativa a quando Meloni, durante la sua campagna elettorale, diceva che non avrebbe toccato la legge 194 (che permette l’interruzione di gravidanza entro 90 giorni per motivi economici, sociali, di salute o familiari).

Sì perché questo emendamento rischia a tutti gli effetti di restringere il diritto delle donne che cercano di avere accesso a una interruzione volontaria di gravidanza. O forse è proprio quello a cui mira. Eppure, dicevo, non può stupire: il primo firmatario è il deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola. Nel suo sito, al tema ‘famiglia’, Malagola si definisce oppositore di chi “diffonde la cultura dello scarto e l’ideologia “woke” minando le basi fiduciarie della Nazione”. La prima – la “cultura dello scarto” – è uno dei cavalli di battaglia di Papa Francesco, che la collega al diritto all’aborto affermando come “nessuno possa vantare diritti sulla vita di un altro essere umano”, facendo appello “a quanti hanno responsabilità politiche affinché si adoperino per tutelare i diritti dei più deboli e venga debellata la cultura dello scarto” (Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2023). Per quanto riguarda invece quella che il deputato definisce “ideologia woke”, è un concetto molto ampio e che nasce con una valenza positiva ma che, sostanzialmente, la destra usa per indicare e denigrare i movimenti progressisti che difendono diritti vari tra i quali, naturalmente, quello all’aborto.

Del resto tutto ciò è in linea con le idee espresse dalla ministra per le Pari opportunità, famiglia e natalità Eugenia Roccella, che sostiene come “da decenni ci sia una cultura dell’anti-famiglia’, un attacco alla famiglia e alla natalità” e che nello stesso discorso ha ricordato a tutti che “i figli si fanno nel modo classico, con un uomo e una donna”, collegando la denatalità alla maggior presenza di famiglie omogenitoriali – infatti la ministra Roccella, tra le altre cose, nel 2006 definì la pillola abortiva RU486 “un enorme inganno” e, nel 2010, intervenne nel dibattito sulla diagnosi genetica preimpianto dichiarando che “il desiderio di maternità non può trasformarsi in un diritto e in particolare un diritto al figlio sano” e che “la diagnosi preimpianto non è una terapia, ma una pura forma di selezione genetica, spesso su semplice base probabilistica”. 

E del resto oggi in Italia, nonostante l’interruzione volontaria di gravidanza sia (o meglio, dovrebbe essere) un diritto garantito dalla legge, oltre 6 ginecologi su 10, il 40% degli anestesisti e un terzo del personale sanitario sono obiettori di coscienza – in altre parole “oltre la metà del personale, medico e non, formato per mettere in pratica un’interruzione volontaria di gravidanza si rifiuta di farlo, appellandosi ad un diritto riconosciuto dal proprio codice deontologico professionale”, come ha spiegato nei giorni scorsi la presidente della Fnopo (Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica) Silvia Vaccari. Significa che molte donne sono costrette a cambiare non solo provincia, ma addirittura regione per poter vedere riconosciuto ed esercitare questo presunto diritto che dovrebbe essere garantito dalla legge 194, peraltro definita dall’Istituto superiore di Sanità come “uno tra i più brillanti interventi di prevenzione di salute pubblica realizzati in Italia”. E infatti i dati più recenti raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) mostrano una forte variabile interregionale: in Italia nel 2021 sono state effettuate interruzioni volontarie di gravidanza in poco più della metà delle strutture sanitarie che presentino al loro interno Unità operative di ostetricia e/o ginecologia. In tutte le altre, evidentemente, non è stato possibile per la mancanza di personale sanitario non-obiettore di coscienza. Non solo: nonostante già da anni sia possibile legalmente abortire farmacologicamente – metodo ritenuto dai medici più sicuro e meno invasivo – in regime ambulatoriale, nella pratica ciò è consentito solo in Emilia-Romagna, Toscana e Lazio. 3 regioni su 20.

In un quadro già così “roseo”, allora, perché non rincarare la dose concedendo alle associazioni antiabortiste di entrare nei consultori per provare a dissuadere le donne che una decisione l’hanno già presa, permettendo ai ‘pro-life’ – che da statuto sono contrari alla legge 194 sull’aborto e che peraltro sono già presenti con i loro sportelli in diverse strutture sanitarie pubbliche – di mettere in discussione quella decisione e di irrompere in un luogo deputato alla tutela delle donne e ai loro diritti? Il Governo Meloni avrebbe invece potuto decidere di finanziare maggiormente i consultori, che sono sempre meno e con sempre meno fondi. O approvare un emendamento per rendere effettive tutte le parti non applicate dalla legge 194 (vedi sopra). Ma in questo caso sì che ci saremmo stupiti.

Fonte : Today