Cosa ci guadagna la Cina dalle tensioni nel Mar Rosso

Gli Stati Uniti hanno bussato alla porta della Cina con una semplice ma importante richiesta: provare a convincere il gruppo ribelle yemenita degli Houthi a sospendere gli attacchi nel Mar Rosso. L’appello di Washington però non sarebbe stato accolto da Pechino, stando a quanto riporta il Financial Times che cita funzionari statunitensi. La richiesta sarebbe partita dal Consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, e dal suo vice, Jon Finer, nel corso di un recente incontro a Washington con Liu Jianchao, capo del dipartimento internazionale del Partito comunista (e che sarebbe in procinto di essere nominato ministro degli Esteri), che proprio a dicembre è stato in Iran, Paese che è molto vicino ai ribelli Houthi.   

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Il classico copione della Cina

Ufficialmente, la Cina si limita a invocare un generale “cessate il fuoco” contro le navi civili – e mercantili – pur criticando i raid e l’uso della forza contro gli Houthi sul territorio dello Yemen. La Repubblica popolare recita il classico copione e si dice pronta a lavorare per una de-escalation nella regione. D’altronde Pechino sa di avere le spalle protette. Pochi giorni fa, in un’intervista al quotidiano russo Izvestia, l’ufficiale del gruppo ribelle, Mohammed al Bukhaiti, ha affermato che sono a rischio solo le navi statunitensi e britanniche, mentre quelle di altri Paesi, in particolare di Cina e Russia, sono escluse dalla lista degli obiettivi da colpire.

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Nonostante le rassicurazioni, anche la Repubblica popolare (e i Paesi che hanno accordi commerciali con lei) soffre della difficile situazione nel Mar Rosso. Basti pensare che nell’ultimo mese, il costo di spedizione di un container dalla Cina verso l’Europa è passato dai 3mila ai 7mila dollari. Il balzo dei prezzi avrebbe così ripercussioni pesanti per il Partito comunista cinese. 

Le pressioni che il Partito comunista non vuole avere

Innanzitutto, un aumento dei costi di import-export potrebbe spingere i Paesi europei ad abbracciare con più favore la politica promossa dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen del de-risking, cioè la riduzione della dipendenza da alcuni beni cinesi e revisione delle catene di approvvigionamento, pur mantenendo attivi gli affari con il gigante asiatico. Una crisi regionale prolungata potrebbe aumentare la pressione sul Partito Comunista in Cina, dove la leadership di Xi Jinping gestisce un’economia in difficoltà e non può permettersi di affrontare i rischi di un cambio delle catene di approvvigionamento e dell’impennata delle tariffe. Perché questo comporterebbe un malcontento della popolazione cinese, che già lamenta un calo del suo potere d’acquisto. 

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Pechino sfrutta la debolezza di Washington

La Cina sembra non voglia assumere un ruolo di primo piano in un’intricata situazione che vede protagonista gli Stati Uniti. La sensazione è che Pechino voglia sfruttare la crisi nel Mar Rosso e la condizione di debolezza di Washington: l’amministrazione statunitense, impegnata a proteggere il commercio internazionale e americano, si concentra sul canale di Suez e gli attacchi degli Houthi allontanando lo sguardo dall’Asia. In questo modo, la Cina ha il tempo di schierare le sue capacità nel Pacifico occidentale e al contempo presentarsi come una potenza benevola che non si intromette negli affari interni degli altri Paesi. Che, tradotto, implica che la Repubblica popolare non si occupi di quello che accade negli altri Paesi e in cambio ottiene silenzio su quel che accade all’interno della Grande Muraglia.

C’è chi, come diversi analisti, ritiene che la cautela osservata dalla Repubblica popolare altro non sia che una mancanza di forza e capacità diplomatica di un Paese che cerca di affermarsi come potenza globale. Difficilmente Pechino cambierà l’approccio alla crisi nel Mar Rosso, a meno che gli attacchi degli Houthi non intaccheranno i suoi gli interessi commerciali. Quest’ultimo scenario, se si presentasse, sarebbe un colpo anche per gli affari iraniani e i rapporti tra Pechino e Teheran.

L’oro nero che lega la Cina all’Iran e Hamas

L’Iran vuole davvero rischiare la posta? In ballo c’è l’acquisto da parte della Cina di greggio iraniano a prezzi vantaggiosi, che però potrebbero schizzare in caso di coinvolgimento nel conflitto israelo-palestinese del Paese degli ayatollah e di conseguenti tensioni nel Golfo Persico. Secondo Kpler, società specializzata nel monitoraggio delle esportazioni di petrolio iraniano, la Cina ha più che triplicato le sue importazioni di petrolio iraniano negli ultimi due anni. La Repubblica popolare è stata anche il principale partner commerciale dell’Iran per un decennio e nel 2021 ha accettato di investire 400 miliardi di dollari nel paese per i successivi 25 anni. 

Osservando la crisi nel Mar Rosso, appare evidente che Pechino stia giocando un gioco cinico, approfittando della difficoltà della potenza americana e dei rapporti commerciali e politici con l’Iran. 

Fonte : Today