Cosa ci insegna la tragedia della donna che si è lanciata nel vuoto con la figlia

Che cosa ci lascia, oltre all’enorme tristezza, la tragedia di Giulia Lavatura, la 41enne che lunedì scorso si è gettata da un’impalcatura del condominio di Ravenna in cui viveva insieme alla figlia Wendy di sei anni e alla loro cagnolina Jessy, morte entrambe nell’impatto? E, soprattutto, cosa ci insegna questo dramma?

Giulia da più di dieci anni era seguita dal Centro di salute mentale di Ravenna a causa di un disturbo bipolare, e pare che nell’ultimo mese avesse smesso di prendere le medicine che le erano state prescritte, come ha confermato lei stessa durante il lungo interrogatorio in ospedale in seguito al suo arresto. La 41enne si sentiva perseguitata dai familiari e, come ha spiegato il suo avvocato Massimo Ricci Maccarini, per lei “le piccole cose di tutti i giorni erano vere e proprie tragedie”. Il giudice per le indagini preliminari, infatti, ha convalidato l’arresto disponendone la custodia nell’unità psichiatrica dell’ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna, dove la donna era già in cura.

Questa tragedia si poteva evitare? Secondo i parenti sì

Ma se era in cura, com’è possibile che sia successo quello che è successo? Questa tragedia si poteva evitare? Secondo i parenti di Giulia sì. La zia, intervistata nei giorni scorsi, ha spiegato che la nipote aveva “convinto” i medici a sostituire le iniezioni di psicofarmaci alle quali si sottoponeva con delle pillole. Così, però, per la famiglia era impossibile controllare che le assumesse regolarmente (il marito di Giulia, tra l’altro, era spesso fuori per lavoro anche per diversi giorni). Ha anche raccontato come gli psicologi, pur riconoscendo che la donna avesse un disturbo bipolare, dicessero a loro familiari di non preoccuparsi: “Giulia non ha istinti suicidi”, avrebbero detto loro i dottori. E invece Giulia lunedì mattina ha tentato il suicidio, non riuscendoci, ma mietendo due vittime innocenti.

La donna ha spiegato anche come la famiglia avesse chiesto aiuto per fare ricoverare la nipote. Ma, a suo dire, i medici dicevano che doveva essere lei stessa a deciderlo. “Ma come fa una persona che non riconosce di essere malata a chiedere di farsi ricoverare?”, si domanda la zia, lamentando come la famiglia di una persona con problemi come quelli di Giulia si senta “sola e abbandonata”. Eppure un ricovero al Centro di Salute Mentale, anni fa, c’è stato e ha funzionato. Dopo un mese di ricovero, quando Giulia è tornata a casa “era cambiata totalmente, l’avevano curata”, ha raccontato la zia.

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Della stessa idea anche il cugino di Giulia, che ha cercato di placare le migliaia di commentatori “sputasentenze” che in questi giorni hanno preso d’assalto i profili Facebook di Giulia e dei suoi parenti, lanciando accuse e critiche senza conoscere la difficile situazione familiare – i commenti sotto al lungo post delirante pubblicato dalla 41enne subito prima di tentare il suicidio sono al momento più di 4600. “Non fare nulla e aspettare gli eventi è terribile e disumano – scrive il cugino della donna lanciando accuse alle istituzioni – Troppo comodo lasciare in mano alle famiglie queste responsabilità”.

La psichiatra Adelia Lucattini, commentando il caso di Giulia, ha spiegato come in casi come questo sia “fondamentale assicurarsi che il familiare in cura assuma i farmaci prescritti”; ma ha anche ammesso che spesso i pazienti “inventano bugie per non prenderli” e che altrettanto spesso “i familiari non se ne accorgono perché chi sospende i farmaci finge”. E allora la soluzione qual è? È possibile lasciare la persona malata libera di autogestirsi gli psicofarmaci sperando che li prenda sul serio? Sperando che non stia mentendo? Lasciandole tra l’altro in affidamento una bambina di sei anni?

Un sistema che non funziona

Dalla tragedia di Ravenna è passata appena una settimana ed è troppo presto per tirare le somme su di un caso le cui indagini sono ancora in corso. Ma una riflessione, anche prendendo in considerazione gli appelli della famiglia di Giulia, si può e si deve fare. Invece di riversare sui social commenti d’odio nei confronti di una persona che era e che è malata, e che dovrà convivere con un macigno enorme sulla coscienza per il resto della sua vita, si può provare a ragionare su di un sistema che non funziona, o che almeno in questo caso non ha funzionato. Un sistema che, evidentemente, va rivisto.

Non è facile esprimere un giudizio su casi simili, e probabilmente non farlo e rispettare il silenzio è proprio la cosa migliore. Ciò che è sicuramente importante, invece, è cercare di capire cosa si celi dietro a drammi di questo tipo, per evitare che altri casi simili si ripetano. Cercare di dare un senso a questi episodi terribili provando a usarli come casi esemplari dai quali trarre un insegnamento. Forse, come ha detto il cugino di Giulia, “la sanità ha bisogno di nuove regole” per evitare morti inutili e drammatiche come quella della piccola Wendy.

Fonte : Today