Così il governo ha rinunciato a tassare le banche

È il 7 agosto 2023 e il vice di Giorgia Meloni e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, fa un annuncio inaspettato: una tassa per le banche, sui loro “extraprofitti” . Tutto accade nella conferenza stampa post Consiglio dei Ministri, a cui mancano Meloni e soprattutto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Salvini definisce la nuova tassa “una misura di equità sociale”, che grazie a un 40 per cento di prelievo da parte dello Stato avrebbe finanziato, solo per il 2023, “aiuti per i mutui alla prima casa” e il “taglio delle tasse”. La notizia scuote il settore e si ripercuote con vigore sui mercati: il giorno successivo i principali titoli bancari italiani perdono tra il 6 e il 7 per cento in borsa, mandando in fumo quasi 10 miliardi di euro. 

Tuttavia, dall’annuncio all’effettiva applicazione della norma la situazione è cambiata, e parecchio. Già nei giorni successivi la stessa maggioranza di governo si è divisa sul tema, con il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia Antonio Tajani che commentava con un “bisogna scriverlo bene il testo normativo”, auspicando di non vedere mai più “una cosa come quella avvenuta con la norma sugli extraprofitti delle banche”. Sì, perché la tassa è passata dall’essere – nelle parole di Salvini – un prelievo “congruo” dei “profitti multimiliardari” delle banche, a un’imposta con un incasso di zero euro per il bilancio dello Stato. Nessuno la pagherà, nemmeno le banche di parziale proprietà statale.

La tassa sugli extraprofitti delle banche nella testa del governo Meloni

Il contesto: nel 2023 l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca centrale europea ha portato notevoli margini di guadagno alle banche. Tassi più alti significano infatti un costo più alto di mutui e prestiti, ad esempio. Come si vede nel grafico sottostante elaborato da Today.it, secondo un’analisi della Federazione autonoma bancari italiani (Fabi), nel 2023 le banche italiane supereranno i 40 miliardi di euro di utili, 17,2 miliardi di euro in più rispetto al 2022, un aumento complessivo del 70 per cento.

I guadagni delle banche italiane grazie ai tassi interesse nel 2023: il grafico

Il governo Meloni ha così deciso di reperire risorse pescando proprio da questi utili: la tassa sugli extraprofitti prevedeva un prelievo del 40 per cento sulla margine di interesse maturato dalle banche nel 2023 rispetto all’anno precedente. Vuol dire che le banche avrebbero dovuto pagare allo Stato il 40 per cento di una specifica voce dei loro conti economici, la numero 30, che corrisponde appunto al margine di interesse, uno dei principali indicatori dei bilanci bancari. Il margine di interesse è definito come la differenza tra gli interessi attivi e passivi di una banca, cioè tra quelli che riceve e dà ai clienti.

Quanto hanno guadagnato le banche italiane con l’aumento dei tassi di interesse

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze in un comunicato dell’8 agosto ha poi chiarito il limite alla tassa, che non avrebbe potuto superare “lo 0,1 per cento del totale dell’attivo di ogni istituto finanziario”, cioè l’insieme di tutte le proprietà finanziarie detenute dalla banca. Giorgia Meloni ha definito “differenza ingiusta” i notevoli margini di interesse delle banche realizzati nel 2023, ribadendo il concetto di Salvini, cioè che grazie alle “risorse recuperate” dalla tassazione sugli extraprofitti si sarebbero finanziati “provvedimenti per sostenere famiglie e imprese di fronte alle difficoltà legate all’alto costo del denaro che non permettono spesso neanche di affrontare serenamente le spese di un mutuo”. Non è andata così.

Com’è stata nella realtà la tassa sulle banche

Dopo l’approvazione del decreto le stime parlavano di un gettito per le casse dello Stato tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro. In realtà, non ci sono mai state previsioni ufficiali su quanto il bilancio statale avrebbe potuto ricavare dalla tassa sugli extraprofitti delle banche. Anzi: in un dossier del Servizio Bilancio del Senato veniva specificato che il governo non indicava gli incassi dalla nuova imposta “per esigenze di prudenzialità”.

Ma è nel passaggio da Palazzo Chigi al Senato per la conversione in legge che il decreto viene stravolto. Il testo viene esaminato in commissione Ambiente e Industria del Senato e lì proprio il governo presenta un emendamento per apportare una novità consistente: le banche possono scegliere di non pagare la tassa. In quel caso, l’unica condizione che dovranno rispettare è destinare un importo pari a due volte e mezzo l’imposta per “rafforzare il proprio patrimonio”. 

La modifica del governo alla tassa sugli extraprofitti delle banche: il testo

Se poi le banche avessero usato l’accantonamento per distribuire dividendi avrebbero pagato una penale. In più l’emendamento aumentava dallo 0,1 per cento allo 0,26 per cento l’importo massimo da versare, escludendo dal calcolo i titoli di Stato. Poi il testo è passato in Parlamento per l’approvazione e la conversione in legge, con pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Le conseguenze erano prevedibili: nessuno ha pagato la tassa, ormai diventata facoltativa. 

Nessuno paga la tassa sugli extraprofitti: gli esempi di Intesa San Paolo e Unicredit

Considerato che nel testo definitivo della legge era prevista la possibilità di non pagare la tassa sugli extraprofitti, era prevedibile che nessun istituto bancario lo avrebbe fatto. È andata così: tutte le banche italiane hanno optato per rafforzare il loro patrimonio, accantonando una somma pari a 2,5 volte l’imposta prevista. La prima ad annunciarlo è Unicredit: nella nota sui conti del terzo trimestre del 2023 definito dal Ceo Orcel “eccellente”, l’istituto ha “tenuto conto delle caratteristiche della legge”, per cui “non si è determinata alcuna obbligazione a pagare l’imposta con riferimento al bilancio del terzo trimestre 2023”. Così, Unicredit ha preferito mettere a riserva 1,1 miliardi di euro, piuttosto che pagarne 440 milioni allo Stato. 

Intesa San Paolo ha invece messo a riserva “un importo pari a circa 1,991 miliardi, corrispondente a 2,5 volte l’ammontare dell’imposta di circa 797 milioni, invece del versamento di tale imposta, avvalendosi dell’opzione prevista”, si legge nella nota sui risultati del terzo trimestre 2023 del gruppo. Come si vede dalla tabella sotto, Fabi calcola che per le principali banche italiane si tratta di 4,2 miliardi di euro messi a riserva per il 2023. Il pagamento della tassa avrebbe invece fruttato 1,8 miliardi di euro alle casse dello Stato.

Quanto dovevano pagare le banche allo Stato per la tassa sugli extraprofitti

“Tutte le banche hanno optato per l’accantonamento a riserva non distribuibile pari a 2,5 volte l’importo teorico del prelievo fiscale – spiegano gli esperti della Fabi a Today.it -. Si tratta di una facoltà esplicitamente prevista da un emendamento al decreto che ha spinto gli istituti di credito a rafforzare il proprio patrimonio, evitando, così, il versamento dell’imposta straordinaria. Una strada grazie alla quale le banche hanno probabilmente anticipato rafforzamenti patrimoniali che, in prospettiva, alla luce del probabile deteriorarsi del credito, potrebbero essere suggeriti o imposti dalle autorità di supervisione e vigilanza”. Al momento della prima approvazione del decreto, il segretario generale Fabi, Lando Maria Sileoni, aveva espresso parere favorevole alla tassa sostenendo che il contributo fosse giusto perché “indirizzato a ridurre le disuguaglianze sociali”.

La pensa così anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, che in una conferenza stampa ha commentato la versione definitiva della norma come “una grande operazione di politica industriale e bancaria, e al termine della quale probabilmente le banche italiane saranno tra le più solide d’Europa”.

Non pagano neanche le banche dello Stato

La tassa italiana sugli extraprofitti bancari non è un caso isolato: misure simili sono state adottate in Spagna, Repubblica ceca, Lituania e Ungheria. In Italia però lo Stato incasserà zero euro, anche dagli istituti parzialmente di sua proprietà e dopo essere intervenuto nel settore con risorse ingenti. Secondo uno studio dell’Università Cattolica, al 2018 lo Stato italiano aveva infatti versato circa 18 miliardi di risorse pubbliche (quindi dei contribuenti) per salvare gli istituti in difficoltà. Almeno 5 miliardi non saranno mai recuperati.

La banca Mediocredito centrale è controllata da Invitalia, agenzia governativa di investimenti del Ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), e ha scelto di non pagare la tassa sugli extraprofitti, preferendo accantonare i fondi a riserva. Ha fatto lo stesso Monte dei Paschi di Siena, banca partecipata dal Mef al 39,23%: l’istituto ha comunicato che “in riferimento a quanto previsto dalla legge sulla tassazione degli extraprofitti bancari, il Consiglio di amministrazione della capogruppo, avvalendosi dell’opzione prevista dal predetto provvedimento, ha assunto un orientamento favorevole a proporre all’Assemblea che approverà il bilancio di esercizio 2023, la costituzione di una riserva di utili non distribuibili non inferiore a 308,9 milioni di euro (analogo orientamento è stato assunto da Banca Widiba per una riserva non inferiore a 3,8 milioni di euro) (per un totale di 312 milioni) senza determinare impatti a conto economico”.

Meloni punisce le banche rafforzandole

Così dalla nascita del provvedimento in Consiglio dei Ministri alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale come legge, lo Stato è passato dal voler “prendere” miliardi di euro dai “profitti multimiliardari” delle banche a lasciarli lì dove sono, incassando, di fatto, zero euro con una tassa. 

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Fonte : Today