Un piccolo gioiello, ambizioso, raro, incoscientemente affascinante, The Artist, costruito in bianco e nero dal regista Michel Hazanavicius, passato last minute in concorso al Festival di Cannes dell’anno precedente, diventato mattatore di stagione e agli Oscar, dove trionferà conquistando cinque statuette, miglior film, miglior attore, regia, colonna sonora e i costumi realizzati da Mark Bridges.
In un momento in cui tecnologia e avanguardia d’effetti speciali erano dominanti, l’idea folle e originale di riconnettersi indietro nel tempo funzionò, rassicurando nel celebrare le radici culturali di un linguaggio tra i più giovani, che ha bisogno sempre di ricordare, più che mai, la propria memoria. Ecco che allora la storia di un divo del cinema muto, George Valentine (interpretato da Jean Dujardin, che per il ruolo vinse anche il Golden Globe e la Palma a Cannes), baffetto malizioso alla Clark Gable, e della sua compagna di lavoro, Peppy Miller (Bérénice Béjo, moglie-musa del regista), si eleva nella Hollywood-Babilonia come metafora anche dei nostri tempi. L’arrivo del sonoro stravolge tutti e molti, cambia colore, muta la prospettiva, abbraccia la novità, apre orizzonti al cambiamento.
Sembrava la fine di una ‘Golden Age’ (in realtà è vivissima e da scoprire) nella quale le star (in primis Rodolfo Valentino) attiravano a sé orde di fan, ammiccando senza potersi sentire, dovendo lasciare il passo (molti si tolsero la vita), segno inequivocabile di un adeguamento dei tempi. Una trasformazione, tra le tante viste: dal teatro al cinema, dal cinema alla tv, fino alle piattaforme, ma che nulla ha lasciato sulla strada: perché ogni cosa oggi può ormai convivere e proteggere la sua identità, anzi, la può influenzare, come la realtà virtuale e il teatro, visti nella pièce pirandelliana, Così è (se vi pare) diretta da Elio Germano. Esempi virtuosi, innovativi, ancorati ad un presente-domani di contaminazioni.
Eppure The Artist fu in fondo un apripista (uscì tempo dopo il sottostimato Blancanieves di Pablo Berger, altra creatura ibrida in questa direzione, nel riprendere gli anni ‘20, reinterpretandoli), costruendo qui un viaggio nostalgico, malinconico, d’amore, scandito da inquadrature lente, didascalie, musica orchestrata di sottofondo, come se quella pellicola (la bobina) fosse stata realizzata nello stesso attimo e col medesimo spirito. Preservare, invece che dimenticare, parlando oltremodo di ascesa e caduta, di potere, di rivoluzione narrativa e visiva, di consapevolezza e desideri, di sguardi ed energie.
Fonte : Wired