Steven Spielberg era l’unico che avrebbe potuto riprendere in mano West Side Story. Il titolo, che esce nel catalogo dei film di marzo 2022 di Disney+ (e se non l’avete già fatto recuperate la nostra recensione di West Side Story), è da sempre tra le stelle guida di un cineasta che bramava da tempo di poter dirigere un musical e che per farlo finalmente ha scelto di affidarsi a un’opera che ha attraversato il tempo e ha continuato a comunicare al presente delle persone. Pellicola che nel 1961 segnava una delle riflessioni più lucide su un’America che era bacino di popoli e culture a cui veniva abbinata la tragedia classica di Romeo e Giulietta, che se ha vissuto prima sotto le mani di Jerome Robbins e Robert Wise, torna a risplendere con il talento del regista originario di Cincinnati.
Che fosse West Side Story il titolo destinato a portare a compimento il sogno di Steven Spielberg era quasi un evento predestinato. In questa sua particolare fase della carriera, che dall’anno di The Post e Ready Player One (scoprite tutto quello che sappiamo sul sequel di Ready Player One) ha sottolineato con particolare fermezza la dualità del proprio cinema, l’autore si approccia alla materia filmica applicandola ai propri desideri più di quanto non avesse mai fatto fino ad ora. Non è un caso che dopo West Side Story il film a cui il cineasta sta lavorando è il The Fabelmans (con anche David Lynch nel cast del film) che seguirà i giorni della sua infanzia, in un progetto intimo e privato in cui Spielberg ripercorre la propria autobiografia affidata alla figura di uno zio che ha determinato le sorti della sua esistenza.
Dalla Hollywood classica al remake
E in quella gioventù spensierata, dove un bambino sognava di dinosauri e di alieni, Spielberg ha alternato ai suoi desideri il ritmo delle musiche di Leonard Bernstein e delle parole di Stephen Sondheim. Ha imparato ad imprecare con il linguaggio scurrile ma centrato di Gee, Officer Krupke e si è innamorato ascoltando Tony cantare il nome della sua Maria. Pescando dalla sua memoria l’autore riplasma i ricordi e le sensazioni che West Side Story ha saputo dargli da bambino e ne dichiara tutto il suo affetto nella rivisitazione che è insieme omaggio ai predecessori Wise e Robbins e versione che possa essere ancora più determinante sull’aspetto culturale che il musical ha sempre contenuto al proprio interno.
Perché il West Side Story del 1961 non richiedeva rimaneggiamenti o revisioni incisive nel testo del racconto. Non aveva necessità di essere ripreso e aggiustato o addirittura rapportato alla contemporaneità. La meraviglia del lavoro musicale è l’incredibile centralità di un discorso come quello della lotta tra poveri che portano avanti i Jets e gli Sharks, con particolare attenzione alla condizione di quegli immigrati portoricani che nel film rappresentano la spinta verso una american way of life che finirà per schiacciarli. Steven Spielberg non ha avuto perciò bisogno di altro se non di accentuare un discorso già fortemente moderno per quel principio degli anni Sessanta, rafforzandolo, intuendo con lo sceneggiatore Tony Kushner la presa d’identità che la famiglia di Maria e Bernardo dovesse avere. L’intuizione di far parlare spesso in spagnolo i personaggi è infatti la decisione ponderata di un autore che voleva che il pubblico percepisse quel senso identitario all’interno dell’opera, utilizzando una barriera sociale (la lingua) per amplificare l’appartenenza della comunità dei personaggi latini. E insieme maniera per generare un senso di distanza, esattamente come quella che i Jets sentivano nei confronti degli Sharks, rendendo l’esperienza del pubblico ancora più immersiva.
“Mi piace l’idea che all’interno della stessa sala cinematografica si generino diversi nuclei di spettatori: quelli che lo spagnolo lo conoscono e quelli che, invece, ne rimangono esclusi come i Jets”. Le parole di un regista che nel racconto di West Side Story ha colto profondamente il significato di adesione ad un gruppo e la difficoltà di voler far entrare in questo il diverso. Quello che i Jets respingono, fermi nella loro convinzione di dover proteggere un territorio che sentono appartenere loro, ma in verità solamente tentativo di difesa di quell’unico posto che hanno mai sentito come casa, molto più di quella condivisa con le loro vere famiglie.
Nelle mani di Steven Spielberg
E se si parla di luoghi di nascita e posti di crescita, il cinema è il terreno su cui Steven Spielberg è nato e in cui ha sviluppato un dono naturale. Una regia che comunica più di qualsiasi parola, così limpida e cristallina da venir fuori con facilità dalle mani di un vero e proprio artigiano hollywoodiano.
Uno stile riconoscibile che crea una sinergia tra regista e immagine, dietro e davanti la macchina da presa. Un dialogo che ha intrapreso con qualsiasi delle proprie opere e che nella riproposta di un classico mondiale afferma ancora di più l’assunto della grandezza delle proprie capacità, che non solo affinano con rispetto un’opera già perfetta dal momento della sua uscita, ma sanno riproporla senza appesantirne il contenuto, senza perderne lo stupore o privandola di un carattere che non fosse strettamente legato al suo nuovo autore. Il West Side Story del 2022 è esattamente come ci saremmo immaginati il musical di Robert Wise e Jerome Robbins se fosse stato nelle mani di Steven Spielberg. E lo si capisce fin dal primo momento.
Differenze e connessioni
La nuova versione del musical si apre con un lungo piano sequenza posto a esplicare da subito la condizione in cui si trova il quartiere di New York in cui si svolgeranno gli eventi del film.
La camera abitua lo spettatore da prima al grigiore di un quartiere in subbuglio tra metallo e cantieri che vogliono smembrare la sporcizia di strade abitate da quella che viene considerata dai più gentaglia, ma che per i Jets rappresenta il proprio nido e rifugio sicuro pronto a esplodere di colore, rosso come il sangue e gli Sharks. Un’entrata placida fatta solamente dalla lente pronta ad inquadrare i dettagli di un palcoscenico in cui si consumeranno gli accadimenti di West Side Story, dalla palla da demolizione che per tutto il tempo ondeggia sopra le teste dei personaggi fino ai tombini da cui escono quei Jets sporchi e scapestrati capitanati da Riff e, una volta, dal protagonista Tony. Giovani considerati ratti da molti, in verità solamente ragazzi insicuri destinati ad esprimere questo turbamento attraverso i chiodi e le lame, e che Spielberg tira fuori dai bassifondi per stabilire da subito il contesto dell’opera e la tensione che si respirerà per il resto della pellicola
Un piano sequenza che detta sin dal primo istante la direzione che intraprenderà la storia, a cui si succederanno brani e canzoni che giocano tra la riproposta di luci e tagli di inquadrature che richiamano il lavoro del ’61 o che lo stravolgono completamente, lasciando al ballo nella palestra di Robbins e Wise la magica fusione tra sguardi e tinte, mentre Spielberg decide di tramutarli in un momento isolato e riservato solamente a Tony e Maria nel segreto di un sottoscala. Ciò che si avverte del suo West Side Story è la presenza predominante di una mano riconoscibile che, al contempo, non si allontana minimamente dal risultato inizialmente raggiunto negli anni Sessanta.
Il vedere sciogliersi di fronte ai nostri occhi, rigenerati di una bellezza che è quella che il cinema di Spielberg sa sprigionare, un racconto che di variazioni ingenti non ne ha a livello narrativo, ma che permettono il pieno riconoscimento della regia dell’autore. L’amare così tanto un progetto, sapercisi avvicinare con attenzione riuscendo a restituirne sia il nucleo principale che la propria visione. È questo il West Side Story di Steven Spielberg: il sogno di un bambino che ascoltava un vinile nella sua cameretta, riuscito a portarlo poi sul grande schermo.
Fonte : Everyeye