The King’s Man su Disney+: 3 scene che lo rendono un grande action

Per quanto vero il distacco concettuale e formale dai capitoli principali del franchise, The King’s Man di Matthew Vaughn merita sicuramente una chance da parte dei fan, specie ora che è approdato su Disney+. La parziale assenza di un nutrito aspetto più divertito ha giocato contro le intenzioni dell’autore, soprattutto per abitudine e aspettative del pubblico, che tutto si aspettava tranne un film dal solo sentore kingsmeniano, di natura però completamente opposta. Se la storia di Eggsy ed Henry è in parte parodia e sovversione delle spy-story, interessata a sfruttare l’esagerazione di genere per creare qualcosa di ironico e spettacolare – quasi un anti-James Bond -, come anche spiegato nella nostra recensione di The King’s Man – Le Origini, questa del Duca di Oxford e del figlio Conrad è diversa e ben più seria e ancorata invece ai canoni degli spy-action thriller.

War movie attuale, al netto di un comparto narrativo molto più efficace nelle tematiche e nelle riflessioni che nello sviluppo della trama, The King’s Man si presenta con una struttura in tre atti scanditi ognuno da una scena madre, cardine, di grande stile. Diverse l’una dall’altra per intenzioni, intensità e portata, analizzate singolarmente e nel dettaglio possono dare l’esatta dimensione concettuale e artistica di un film che oggi più di ieri è in grado di raccontare con taglio popolare gli orrori della guerra e gli spettri del passato. Il recente approdo di The King’s Man su Disney+ è allora la giusta motivazione per addentrarci in questo viaggio in tre atti all’interno dell’opera di Matthew Vaughn.

Il confronto con Grigori Rasputin

Una delle figure più eccentriche, occulte e appassionanti della storia russia è sicuramente quella di Grigori Rasputin, consigliere privato dei Romanov e figura estremamente influente su Nicola II di Russia. La sua vita è per la maggior parte avvolta nel mistero, così come le sue arti mistiche. Assolutista imperiale e icona di potenza e lussuria, Rasputin non poteva che rappresentare uno dei principali nemici del Duca di Oxford e della sua squadra, anche se non il principale.

È parte di una cospirazione per distruggere soprattutto l’Inghilterra, ma è la duttilità del personaggio in chiave caratterista a renderlo impeccabile in un ruolo da nemico comprimario come quello imbastito da Matthew Vaughn. Affidato al talento interpretativo istrionico di Rhys Ifans, Rasputin è stato pensato per unire realtà e leggenda insieme in un solo contenitore, diversamente da quanto fatto dagli Hellboy cinematografici o anche nel film d’animazione Anastasia.
L’apice della sua presenza arriva durante l’incontro con il Duca in Russia. Secondo le descrizioni dell’epoca, il mistico imperialista appariva come un monaco vestito da danzatore cosacco, dinoccolato e altissimo, incutendo timore e riverenza in tutta la corte dello Zar. L’aspetto è riportato magnificamente nel primo faccia a faccia con il Duca: “Siete camerieri o inglesi? – chiede Rasputin -. In ogni caso, portatemi un cazzo di drink“.

La sequenza continua, e dopo la messa in scena della reverenzialità voluta da Rasputin, la sua importanza per l’Impero di Russia, Vaughn passa alla lussuria. Conrad, figlio del Duca, dovrebbe attirare il consigliere stuzzicando le sue voglie sessuali. Purtroppo non riesce e spetta al padre sistemare la cosa, invitando Rasputin a guarirgli la gamba con la scusa della torta cucinata appositamente per lui e scatenare un altro dei suoi vizi: la gola.

Le sue doti mistiche sono reali o è merito di droghe e ipnosi? Qui il regista resta vago, anche se la gamba del Duca guarisce, ma è nell’atto conclusivo della scena che esplode il colpo di genio: prendere la leggenda della sua morte e l’occulto da lui rappresentato e renderlo concreto, impalcando uno scontro in successione travolgente fino alla morte di Rasputin.

Il decesso è lento ma rappresenta la crasi perfetta tra fantasia e verità, tutto in uno scontro corpo a corpo tremendamente avvincente. In Hellboy, Trevor Broom diceva: “Grigori Yefimovich Rasputin. Consigliere occulto dei Romanov. Nel 1916 a un pranzo in suo onore fu avvelenato, sparato, accoltellato, bastonato, castrato e infine affogato“. La realtà è molto più artificiosa e meno appagante, anche se estremamente vicina a questo racconto, ma The King’s Man mantiene vivo il fascino della mitica dipartita del personaggio: il cianuro nella torta a cui sopravvive; la spada nel bastone del Duca che lo trafigge; l’attizzatoio impugnato da Conrad che lo colpisce; l’annegamento nelle gelide acqua russe che fallisce; infine il colpo in fronte sparatogli da Polly che lo uccide. Manca la castrazione, è vero, ma nella sequenza non sarebbe stata giustificata. Possiamo immaginarla ideale e morale: è stato socialmente evirato dalla battuta pungente del Duca di Oxford. Per il resto, siamo davanti a una scena concettualmente ineccepibile.

La trincea

Uncle Sam (personificazione del governo federale americano) divenne famoso nel corso della Prima Guerra Mondiale grazie agli iconici poster di reclutamento “I want you for the U.S. Army“. Meno noti sono invece quelli inglesi, pensati però allo stesso modo. Anziché Zio Sam, stampato sui manifesti c’era il volto del Generale Herbert Kitchener e la scritta “Britons wants you: join your country’s army! God save the King“.

Una massiccia operazione di reclutamento volontario e proselitismo militare che tentava di far leva sullo spirito patriottico dei giovani inglesi, promettendo gloria e onore in virtù dell’estremo sacrificio per il proprio paese. Non un lavaggio del cervello in stile propagandistico ma quasi, riflettendo soprattutto sulla sproporzione del conflitto ’14-’18 rispetto a ogni altra guerra precedente.

Può sembrare assurdo, ma in qualcosa di tanto unico e globale come la Prima Guerra Mondiale vollero partecipare anche i giovani rampolli delle famiglie nobiliari britanniche. Non tutti, si intende, e soprattutto non in trincea diretta, ma il fuoco della resistenza e dell’orgoglio infiammava i cuori di questi ragazzi, pure se protetti da soldi e nome.

In The King’s Man a rappresentare questo fervore pro-bellico è Conrad, figlio del Duca, idealmente in antitesi con le promesse e le intenzioni del padre, legato al giuramento fatto alla moglie in punto di morte: proteggere Conrad dall’orrore del mondo e non fargli più vedere la guerra. A ogni tentativo d’arruolamento in età minorile, il Duca di Oxford, impedendoglielo, tenta di portarlo a ragione. Quando il figlio mostra una piuma datagli in paese, a indicarlo come pollo e codardo per non essersi ancora arruolato rispetto ai suoi coetanei senza soldi né titolo, il padre continua: “La reputazione è l’opinione che hanno di te. Il carattere è ciò che sei“. Combattivo e non codardo, quindi. E, spera il Duca, nemmeno folle. Raggiunta la maggiore età e trovato un escamotage per eludere il diretto ordine di Re Giorgio V, intenzionato a proteggerlo perché amico del padre, purtroppo Conrad riesce a raggiungere il suo obiettivo e scendere in campo, direttamente in trincea.

Qui il suo carattere supera di gran lunga la sua reputazione, portandolo a proporsi come volontario per una missione suicida assieme ad altri sei commilitoni: uscire dalla trincea a notte fonda per evitare di essere visti, strisciare fino a recuperare un importante oggetto di una spia tedesca precedentemente fatta esplodere dalle dalle armi nemiche e rientrare alla base.

Nulla va come sperato ma la scena in questione, anima del secondo atto, è una delle più particolari mai dirette da Vaughn. La notte è silenziosa e scura e i sette inglesi strisciano verso l’obiettivo, ma d’un tratto incontrano altri sette soldati tedeschi. Convengono senza parlare di non usare fucili e pistole per non svegliare le rispettive trincee e morire sotto il fuoco incrociato. Sguainano accette e coltelli o si armano di oggetti contundenti.

Comincia lo scontro. L’inizio è in un veloce piano sequenza che attraversa i sette diversi combattimenti per entrare nel vivo dell’azione, rispettando il silenzio del campo aperto. A echeggiare nell’aria solo i gemiti e i versi dei soldati.

Restano in piedi quattro tedeschi, Conrad e il capitano: il nobile è una furia abile e scattante e ne uccide due, ritrovandosi davanti a morte certa contro l’ultimo nemico fino al sopraggiungere di un unico e sordo sparo deciso dal capitano inglese, per salvargli la vita. Le mitragliatrici delle due trincee si attivano e falciano il salvatore e il suo avversario, mentre la notte si accende di bengala in cielo, illuminando però a Conrad la strada verso l’obiettivo, che raggiunge. È qui, momentaneamente in salvo, che comprende il vero orrore delle guerra, mentre intorno i topi divorano voracemente le carcasse dei soldati morti sul campo. Il carattere è ciò che rappresenta, però, e non può tirarsi indietro. Decide di portare in spalla la spia inglese sopravvissuta e tornare dagli alleati con l’oggetto del contenzioso in tasca, ma a un passo dalla meta esplode una granata che lo sbalza in trincea, uccidendo la spia. Ed è qui che prende forma non l’orrore ma la follia della guerra, alienante e spietata, dove non è possibile riflettere più velocemente di un proiettile.

Il sergente maggiore si congratula con Conrad: “Come ti chiami soldato?“. Lui risponde: “Archie… Archie Reed, signore“. È ovviamente una bugia: è il nome del compagno con cui si è scambiato di posto, lo stesso che porterà poi al Duca di Oxford la tragica notizia della morte del figlio. È la mano dell’assassino ad essere assurda: quella di un suo stesso commilitone che, conoscendo il vero Archie, scambia Conrad per una spia tedesca infiltratasi, sparandogli un colpo in testa e uccidendolo.

Paradossale: sacrificatosi per il proprio paese per essere poi ucciso dallo stesso, dal suo popolo, da chi lo considerava un codardo. Una morte non inutile ma evitabile, a monito emblematico: anche i protagonisti muoiono. Come tutti. La guerra è una livella spietata.

Il duello finale

Nel finale non c’è storia, invece, ma pura invenzione, anche se viene imbastita una risoluzione vis a vis tra Regno Unito e Scozia, due facce dello stesso Impero e dei gentlemen. Da una parte il Duca di Oxford, dall’altra il Capitano Morton, o meglio il Pastore della società segreta composta dai consiglieri dei potenti d’Europa, a sussurrare intenti malevoli vestiti di virtù alle più grandi nazioni della scacchiera.

Lui il Pastore, i consiglieri cani d’allevamento, addestrati a obbedire, i capi di stato le greggi da guidare. Tutto è, Morton, tranne un gentleman (tradimento, omicidio, crimini di guerra), ma una volta smascherato si riempie la bocca delle parole che diventeranno monito del franchise: “I modi definiscono l’uomo“.
Matthew Vaughn evita le bocche da fuoco e punta sull’arma bianca, la spada. Uno contro uno, all’ultimo sangue. È vero: in The King’s Man manca l’effetto “wow” provato in precedenza per la Scena della Chiesa o lo Scontro finale a Poppy Land, ma anche le intenzioni sono differenti. Se ancorato alla storia e alla realtà vuole essere, il virtuosismo registico deve adattarsi al contesto senza fagocitare credibilità e sostanza, e in effetti l’autore riesce a calibrare bene il peso della sequenza, interpretandola su schermo. Il glangore delle spade risuona nel combattimento, ma le armi sono estensione degli spadaccini e i colpi sferrati quasi dei pugni d’acciaio, per la veemenza con cui sono tirati e la potenza con cui vengono ripresi e catturati. È uno scontro violento che sfrutta con intelligenza montaggio e punti di cattura, scegliendo anche la soggettiva dalla spada per entrare ancora di più nel duello.

La coreografia è scenografica e cinematica, essenziale quanto basta per non dirsi impossibile, elaborata a dovere per essere sontuosa nella sua semplice eppure entusiasmante spettacolarità senza fronzoli. Bomba a mano e gioco sporco dopo, Morton e il Duca sono all’aperto, sul precipizio, con il primo ormai vicino alla vittoria.

Ma sono davvero i modi a definire l’uomo, e alla fine a giudicarli in The King’s Man è un animale, essere innocente e sfruttato. Intelligentemente, un montone, una di quelle “pecore” che il Pastore amava bastonare, arrecando dolore. L’analogia del potere a discapito di tutto. Per l’innocente, Morton aveva solo tagli e offese, ma il Duca, da vero gentiluomo, una sola ma sincera carezza.

Davanti alla scelta d’intervenire o meno, nella possibilità di farlo, l’animale trafigge allora con le corna il cattivo, permettendo a Oxford di tornare in posizione predominante e stringere letteralmente la vita del nemico tra le mani.

Solo che in quel precipizio, davanti a Morton, non c’è il Duca ma “l’uomo che Conrad sarebbe potuto essere“: se non fosse scoppiata alcuna guerra, se non vi fossero stati conflitti dettati dalle astruse mire di dubbi e corrotti e psicotici personaggi assetati di sangue e autorità. È dunque con il valore riconosciuto al sacrificio del figlio, a rappresentare tutti i giovani che hanno perduto la vita sul campo di battaglia, che il Duca recide l’appiglio che sostiene il Pastore, condannandolo a una morte orribile, precipitato in un inferno di rocce e polvere. La fine che ogni guerrafondaio merita: dalle stelle alle stalle in un lampo, in solitudine, spaventati, guardando la fine dritta in faccia senza lo stesso coraggio che hanno avuto i soldati da loro mandati a combattere. Chiamatelo pure contrappasso, se volete. In fondo anche la fine definisce un uomo.

Fonte : Everyeye