Red Rocket Recensione: l’America senza speranza di Sean Baker

L’America di Sean Baker è da sempre a colori. Quelli più disparati, accesi e psichedelici, in contraddizione con la sporcizia che si nasconde sotto la superficie, ma che l’autore tinteggia di pastello non rendendo comunque meno brutali alcune parentesi della vita. Come quelle che devono affrontare un gruppo di donne transessuali nel suo Tangerine, arrivando alla realtà di The Florida Project e della sua mamma single al limite della prostituzione, tutto per proteggere la figlia chiusa nella roccaforte di un motel che si fa castello disneyniano – non perdere la nostra recensione di Un sogno chiamato Florida. Dopo il film che aveva portato Willem Dafoe alla sua candidatura al Golden Globe e all’Oscar come migliore attore non protagonista nel 2018, Baker presenta in concorso al Festival di Cannes il suo Red Rocket anche questa volta zuccherata come un dolcissimo donut, di quelli che sotto la glassa se ne mangi troppo rischi però di sentirti male.

L’american way of life di Sean Baker

Il cineasta maschera al solito di luccichii e architetture la propria favola che si fa stavolta politica, per un rimando costante a un’America di Donald Trump che tenta di corrompere e deviare, facendo del protagonista Mikey Saber l’esempio più vivido della mancanza di redenzione.

Un percorso all’inverso quello che il personaggio è portato a fare, che come il mentalista del La fiera delle illusioni – Nightmare Alley di Guillermo Del Toro parte da un punto fisso nella bassezza umana per finire poi a ritornarci – se ve la siete persi potete recuperare la nostra recensione di La fiera delle illusioni e (ri)vederlo questo mese tra film Disney+ di marzo 2022. L’ex pornoattore di Red Rocket, interpretato dal Simon Rex noto per i vari Scary Movie, ma che in un rimando alla sua vita personale è stato realmente coinvolto in un paio di audiovisivi osé, dice di voler uscire da un mondo a cui ha dato tutto e che gli si è rivolto contro. Vuole andarsene, migliorarsi. Tornare al punto di partenza, da dove tutto è cominciato per poter così trasformarsi. Una parabola il cui arco tratteggia una circolarità che mostra esattamente la sotto traccia sociale e collettiva di una nazione che dopo aver compiuto uno sbaglio crede veramente di poter cambiare, ma il cui destino è di rovinare ogni cosa. E il fatto peggiore è che non riesce nemmeno ad accorgersene, formando un uroboro dove a coincidere sono un inizio e una fine che rappresentano sempre il momento in cui si tocca il fondo e dove ritrovare proprio lì un Paese e un personaggio.

Nel Texas scostante e ruvido dove si sciorina il racconto, Red Rocket porta il protagonista Mikey a rappresentare nella particolarità della sua microstoria il senso più ampio di un titolo che, volontariamente o meno, è riflesso della parentesi storica in cui è stato scritto e prodotto, giungendo alla fine dei quattro anni di presidenza di una figura contraddittoria. Quasi la ciliegina a chiudere una strada che, come ci insegna il lungometraggio, l’America sarà pronta a ricalcare allo scattare dei quattro anni presidenziali dell’ultimo eletto Biden, facendosi così pellicola dei suoi tempi, ma altresì archetipo tipico sull’impossibilità di poter imparare e ricadere sempre nei medesimi errori.

Dolce e fragile come una fragola

Nella continua esplorazione di un cinema che guarda alle verità solitamente nascoste, alle vite silenziate ai margini delle città, Sean Baker riesce ancora una volta a far risaltare una luce in Red Rocket, che parte sia dal materiale narrativo che decide di plasmare ma che brilla a sua volta di uno dei talenti più fervidi del panorama indipendente. Un regista il cui occhio circoscrive personaggi e storie appartenenti ad un filone oramai ben delineato a cui non si preoccupa mai di restituire un briciolo di armonia o speranza, le quali riserva solamente alle composizioni visive e fotografiche delle sue inquadrature.

Odiando profondamente il protagonista di Simon Rex, che al contrario sa come farsi ammirare per la sua interpretazione, con Red Rocket l’autore diventa internamente più duro, ma continua a deliziarci della caramellosità delle sue immagini. Una fragolina – non a caso il soprannome del personaggio di Suzanna Son – che vediamo marcire gradualmente. Un’innocenza pronta a sparire per sempre, come purtroppo spesso accade nella poetica di Sean Baker.

Fonte : Everyeye