Reputazione a rischio, un docufilm su fake news e finte identità

Un cantautore americano al lancio del suo primo album in Italia viene intervistato da una serie di trasmissioni e riviste. Si fa chiamare Koodja, racconta di essere un compositore tornato da poco in Italia dopo un’intera carriera negli States. Su Amazon circola persino una sua biografia, firmata da tale scrittore. Bene, è tutto falso. Si tratta in realtà del manager Terenzio Cugia di Sant’Orsola, che si è prestato all’esperimento di Davide Ippolito, editore di Reputation review e autore di Reputazione capitale del terzo millennio. È lui a firmare la regia del documentario Reputazione a rischio, presentato oggi a Roma: un anno e mezzo di interviste condensate in 50 minuti per mostrare quanto sia facile creare o distruggere reputazioni eludendo i famigerati algoritmi.

C’è di base un grosso bug a livello di verifica delle fonti, un passaggio che spesso si fa online, proprio lì dove le fake news vengono create e fatte rimbalzare in ogni dove. Il documentario è ispirato dichiaratamente a The Great Hack – Privacy violata, sullo scandalo Cambridge analytica, e si sofferma anche sulle fake news della politica, con immagini che vanno da Trump a Bolsonaro fino a Boris Johnson, facendo cenno delle manipolazioni digitali dei risultati elettorali avvenute già ai tempi delle elezioni di Trump e Clinton, attraverso l’utilizzo dei bot. 

L’aggiunta del lavoro di Ippolito sta nel coinvolgimento dei sistemi di rappresentanza, intervistati per un riscontro diretto di come le suddette tematiche impattino all’interno delle aziende.  Nello specifico, oltre al citato Terenzio Cugia di Sant’Orsola, nel reportage intervengono il vicepresidente di Confindustria Vito Grassi, il presidente di Federmanager Stefano Cuzzilla, il presidente Cida e Manageritalia Mario Mantovani, il fondatore di Venere.com ed editore del Salvagente Matteo Fago e il presidente di Federprofessional Andrea Maria Mazzaro.  Accanto a loro, vengono interpellati esperti come Viola Bachini, autrice di Fake People, e Michele Sorice, docente di innovazione democratica alla Luiss, che parla del capitalismo digitale e delle conseguenze della piattaformizzazione: una sfera pubblica frammentata e non plurale, dominata dal pensiero unico globale neoliberista. Viene citata anche la teoria dell’infosfera di Floridi: «Vivere online comporta una continua produzione di sequenze semiotiche prodotte da uomini e macchine al tempo stesso». 

Interessante, di facile fruizione, benché a tratti accademico, il documentario verrà proiettato nei circuiti e nei cinema del territorio italiano (Napoli, Milano, Bologna, Pescara, Firenze) nel mese di marzo, mentre dal 15 aprile sarà disponibile su Business+, nuova televisione multicanale dedicata a manager e imprenditori con la direzione editoriale di Claudio Brachino. Curioso ma vero, Reputazione a rischio si chiude con un interrogativo volutamente lasciato in sospeso: «Di chi ci possiamo fidare?». Noi di Wired abbiamo rivolto la domanda direttamente al regista, ci risponde così: «Tendenzialmente di nessuno, anche se le nuove generazioni hanno più educazione digitale e consapevolezza dei mezzi rispetto alle precedenti. Quando parliamo di fact checking e identità digitale occorre ricordare che servirebbe una normazione, ma come si può normare qualcosa che è così globale?». 

Fonte : Wired