Alzheimer comincia a danneggiare il cervello molto tempo prima che si manifesti con sintomi clinici. Questo è il motivo per cui quando arriva la diagnosi, la malattia ha già compromesso la memoria e le funzioni cognitive, e, probabilmente, e’ anche la ragione per cui i pochi farmaci approvati o in sperimentazione hanno effetti minimi se non nulli. Sebbene ancora oggi non siano chiare le cause, l’Alzheimer sembra essere caratterizzato dall’accumulo anomalo nel cervello di una proteina chiamata amiloide. Contro l’accumulo di questa proteina sono sviluppati alcuni anticorpi monoclonali, già in uso negli Stati Uniti e che potrebbero presto essere disponibili anche in Europa per il trattamento dell’Alzheimer in fase precoce, caratterizzata da demenza lieve. Si tratta di terapie che non vengono somministrate su larga scala poichè hanno effetti collaterali importanti e risultano efficaci solo se utilizzzate nella fase precoce della malattia. Tuttavia, solo il 30-40 per cento di chi soffre di declino cognitivo lieve (MCI) progredisce verso une vera e propria demenza.
Da qui la necessità di identificare con la massima accuratezza chi effettivamente andrà incontro ad Alzheimer. Ad aver raggiunto questo importante risultato è stato uno studio, denominato “Interceptor”, promosso e finanziato nel 2018 dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che ha individuato la combinazione di 8 biomarcaori in grado di individuare le persone a maggior rischio di sviluppare demenza tra quelle che soffrono di un disturbo cognitivo lieve. I dettagli della ricerca sono stati presentati il 17 febbraio durante un Convegno organizzato dall’Osservatorio Demenze del Centro Nazionale Prevenzione delle Malattie e Promozione della Salute (CNaPPS) dell’Istituto Superiore di Sanità.
Lo studio “Interceptor”
Lo studio “Interceptor” è nato alla del 2016 in risposta alla possibile approvazione da parte della Food and Drug Administration del primo farmaco contro l’amiloide, il cui accumulo nel cervello viene ad oggi considerato una delle principali cause della demenza di Alzheimer, ed è coordinato dal Prof. Paolo Maria Rossini che all’epoca era il direttore dell’Unità Operativa di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS (oggi è responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele-Roma). La ricerca si basa sul fatto che questi faramci sono più efficaci se somministrato precocemente, che le persone con disturbo cognitivo lieve (o MCI, Mild Cognitive Impairment) sono a maggior rischio di andare incontro a demenza entro tre anni e che le nuove terapie presentano importanti effetti collaterali, il che rende necessario individuare i candidati con miglior rapporto rischio/beneficio. Inoltre i costi altissimi ed il fatto che solo il 30-40 per cento degli MCI progredisce verso la demenza, rendono impossibile una somministrazione su larga scala (i pazienti con MCI in Italia sono circa 950mila)”.
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Il test su 351 pazienti
I ricercatori hanno arruolato 351 pazienti con declino cognitivo lieve (MCI) da 19 centri clinici diffusi in tutto il territorio nazionale, e sottoposti a una serie di esami: il test Mini Mental per valutare le capacità la cognitive, il test Dfr per valutare la memoria episodica, la Pet per l’analisi dell’attività metabolica cerebrale, la Risonanza Magnetica volumetrica per la valutazione dell’atrofia ippocampale, l’elettroencefalogramma per lo studio della connettività cerebrale, il test genetico per la determinazione del genotipo APOE (il gene APOE-ԑ4 sia associato ad un rischio maggiore di sviluppare l’AD) ed infine esame del liquido rachidiano per la misurazione dei markers biologici di malattia di Alzheimer. Durante il follow-up, 104 pazienti con MCI hanno sviluppato una forma di demenza, di cui 85 l’Alzheimer (AD). I partecipanti sono stati seguiti in per 2,3 anni, nell’arco dei quali sono stati sottoposti a valutazioni neuropsicologiche e funzionali ogni 6 mesi.
Gli otto parametri che predicono il rischio demenza
Lo studio ha permesso di individuare 8 predittori: il sesso, l’età, il questionario Amsterdam Iadl che valuta la capacità di svolgere le attività strumentali della vita quotidiana, la familiarità per la demenza, il test Mini Mental, il volume dell’ippocampo sinistro, il rapporto abeta-42/p-tau e l’elettroecenfalogramma. Questo modello ha dimostrato buone capacità prognostiche nel predire la demenza, con un’accuratezza di circa l’82 per cento. I ricercatori hanno quindi creato su qeusta base una sorta di mappa del rischio, uno strumento elettronico che potrebbe potenzialmente essere utilizzato, se validato, anche del medico di medicina generale inserendo gli otto parametri individuati.
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Prossimi passi
Se l’ AIFA approverà qualcuno dei nuovi farmaci, i ricercarori di Interceptor proveranno a validare in un nuovo studio (“Interceptor 2”) il modello su un relativamente piccolo numero di soggetti e verificare sul campo la capacità di selezione dei soggetti ad alto rischio e di erogazione e monitoraggio del farmaco. “Ulteriori risultati, vista la vastità delle informazioni raccolte, saranno certamente disponibili nei prossimi mesi e anni – ha spiegato Rossini -, inclusi quelli ottenibili attraverso algoritmi di Intelligenza Artificiale. Da queste analisi sono emersi importanti rilievi scientifici ed organizzativi per la lotta alle demenze, in particolare per una diagnosi precoce ed anche per una prevenzione efficace. Diversi articoli scientifici sono già stati pubblicati su questo dataset e altri seguiranno presto, anche grazie alle numerose collaborazioni avviate negli ultimi due anni con diversi gruppi di ricerca italiani”.
L’anticorpo monoclonale che rimuove la beta amiloide
Di recente sono stati approvati dalla Food and Drug Administration due anticorpi monoclonali: donanemab e lecanemab, che agiscono rimuovendo l’eccessivo accumulo di placche amiloidi dai cervelli dei pazienti con Alzheimer. Tuttavia, questi farmaci possono causare importanti effetti collaterali, come edema ed emorragia cerebrali, per questo devono essere gestiti con un attento monitoraggio. Inoltre, risultano efficaci nel rallentare il declino cognitivo solo se applicati nelle fasi iniziali della malattia.
“L’EMA – ha spiegato Robert Nisticò, Presidente dell’AIFA, Robert Nisticò, – ha recentemente approvato il lecanemab, un anticorpo monoclonale che ripulisce il cervello della beta amiloide, la proteina che accumulandosi nel cervello può generare infiammazioni che portano alla neurodegenerazione e a disturbi come la perdita della memoria. Ma sulla sua efficacia c’è ancora molta incertezza, perché rimuovere la beta amiloide non necessariamente ha un impatto positivo sul paziente in termini clinici e funzionali. Possiamo dire che questo, come altri già approvati dalla FDA americana, sono farmaci che rallentano il decorso della malattia, ma lo fanno in maniera transitoria e la loro efficacia a lungo termine è ancora tutta da verificare”. “La realtà – ha concluso – è che l’Alzheimer è una malattia molto complessa che va aggredita sia con la prevenzione che con terapie in combinazione. Poi con biomarcatori che consentiranno di fare diagnosi e capire la prognosi saranno in futuro importanti le cosiddette terapie target, capaci di colpire il bersaglio più giusto per ciascun paziente. Questo nell’ambito di un approccio che è quello della medicina di precisione, alla quale AIFA sta lavorando con un Tavolo tecnico”.
Fonte : Today