Jin War non è poi così lontana, ma è come se fosse un mondo a parte. “Ero stufa di essere trattata male da mio marito, dalla mia e dalla sua famiglia. Così li ho mandati al diavolo e sono venuta a vivere la mia vita qui, a Jin War. Ci sto da due anni e finalmente sono serena, felice. E libera”. Wadih ha poco più di cinquant’anni, viene dalla città di Terbesbiye, non distante dal confine che divide la Siria dalla Turchia.
Per raggiungere Jin War si costeggia per molti chilometri, se si parte da Qamishlo, il muro che Erdogan ha fatto costruire nel 2015 per chiudere il passaggio di profughi in fuga dalla guerra, ma soprattutto per impedire che i curdi del Bashur, la regione a sud est della Turchia, e quelli siriani della Rojava, possano creare un fronte comune a difesa dei loro diritti.
Siamo nel nord est della Siria, in quel pezzo di Medio Oriente dove le donne curde si sono spese in prima linea per combattere l’avanzata del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, quando nel 2014 la città di Kobane è diventata simbolo della resistenza all’Isis, non solo sconfiggendolo, ma anche affermando un’idea assolutamente innovativa di governo dell’area.
L’esperimento del Rojava
L’esperienza del “confederalismo democratico” ha preso piede dodici anni fa ma solo due anni dopo, nel 2014, proprio a seguito dell’esplodere della guerra civile alimentata dall’Isis, ha di fatto avuto lo slancio decisivo. Un’idea di società che ha poi convinto anche chi curdo non è, ma che ugualmente sogna una società paritaria, libera e democratica, dove anche le donne, non solo gli uomini, sono protagoniste della vita sociale, culturale, politica e militare.
Concetti che soprattutto in questo pezzo di mondo sembrano essere provocatori e blasfemi principalmente perché mettono chiaramente in discussione consolidati sistemi teocratici, patriarcali e dittatoriali. In Siria Assad, a nord il turco Erdogan, che il popolo curdo perseguita da quando ha preso il potere. Poi ci sono i vicini dell’Iraq del Nord che teoricamente dovrebbero essere “amici”, visto che sono curdi anche loro, ma che invece non vedono affatto bene la svolta democratica portata avanti da quando è cominciata la guerra. E dall’altra c’è il Libano, eterna polveriera.
Un sistema, quello del confederalismo democratico che, invece che sopperire prima sotto i colpi di Isis e ora dei continui attacchi che subiscono proprio dalla Turchia – che usa droni e milizie per mettere in difficoltà la Rojava – prende sempre più forza.
Un luogo necessario: Jin War, la città delle donne
Wadih è una donna araba, l’esempio più chiaro di quanto il cambiamento proposto dai curdi sia stato fatto proprio anche dalle altre comunità che vivono in questa regione e quanto questo, per sistemi consolidati, rappresenti una minaccia. E il villaggio di Jin War è la dimostrazione pratica di quanto sia una sfida non solo avvincente, bensì vincente. Se il sogno, l’utopia, di una società egualitaria, dove non è la scelta del culto religioso, l’appartenenza a una cultura o a un’altra, o il sesso, a definire a che diritti si può avere accesso, Jin War è come una spada piantata nel cuore del patriarcato in una delle parti di mondo dove da sempre il potere è un affare esclusivo degli uomini. Così il villaggio di Jin War, che in curdo significa “casa delle donne”, rappresenta un simbolo delle conquiste fatte in questi anni. Si trova a ovest del distretto di Al-Darbasiyah, nella provincia di Al-Hasakah.
I lavori per la sua costruzione sono iniziati nel 2016 partendo dall’assunto che fosse un luogo necessario. Si sono tenuti incontri con le istituzioni di tutte le municipalità della Siria settentrionale e orientale per capire se fosse possibile realizzare quanto all’inizio sembrava solo un’intenzione. Il secondo passo è stato compiuto dal Comitato economico delle donne della Rojava che ha destinato questo pezzo di terra alla realizzazione del villaggio. Il 10 marzo del 2017, circa seicento donne si sono presentate su questo pezzo di terra, si sono rimboccate le maniche e hanno cominciato a lavorare per costruire Jin War. E l’hanno fatto. Non c’è voluto neppure tanto, pochi mesi.
Il villaggio è stato pensato anche per scopi culturali e pone l’accento sui principi ecologici. Le 30 case costruite sono fatte nella maniera tradizionale, come si faceva una volta in queste zone, in modo che possano essere calde d’inverno e fresche d’estate. Usando il fango e la paglia con cui producono i mattoni su cui si reggono i muri delle case. Che sono solide, lo dimostrano i pochi segni nelle mura di alcune case che ci ricordano un’altra data che ha segnato questa terra, quando la notte tra il 5 e il 6 febbraio del 2023, la terra in Turchia e in Siria ha tremato con una potenza mai registrata in 2mila anni, con una magnitudo di 7.7.
Qualcosa di mai visto, di mai vissuto. Sono crollate intere città, a Jin War neanche un graffio. Quando ci si arriva in auto spostandosi dalla strada principale si incontrano poche case fino a che non si giunge a un cancello, dove una signora, seduta su una sedia all’ombra di diverse piante, ci fa cenno di entrare.
Ci accompagna una giovane ragazza curda che funge anche da interprete, Inana. Lei proviene proprio da questa zona, ma anche per lei è la prima volta a Jin War. Il posto è davvero bello e caratteristico. Le case hanno una forma particolare che richiama esplicitamente le forme del corpo femminile. C’è tantissimo verde di fronte a ognuna di queste abitazioni. Uno dei punti fermi della rivoluzione della Rojava, oltre a quanto già detto, è l’attenzione all’ambiente e ovunque si può si piantano alberi. Sanno bene che è l’unico modo per creare refrigerio. In Rojava fa sì caldo, ma in tutte le città e i villaggi, ovunque ci sono delle case, ci sono tanti alberi e verde. È così anche a Jin War.
Nel centro del villaggio c’è uno spazio giochi per bambini, attrezzato con tutto quello che serve. Le donne che vivono qui, la maggior parte, sono vedove che hanno perso i mariti in guerra. Salwa è quella che è qui da più tempo. Prima viveva ad Afrin con i tre figli e il compagno, ucciso in combattimento dalle forze speciali turche. Da quando è terminata la spinta propulsiva dei combattenti Isis si sono esposte in prima persona, assoldando anche milizie private, e oramai da otto anni attaccano e bombardano sia la città che la provincia di Afrin costantemente.
“È morto combattendo, cercando di difendere le nostre case. Lui come molti altri”, ci dice Salwa mentre copre il figlio piccolo che gli si è addormentato accanto con una kefiah chiarissima cucita con cotone molto sottile. “Lì la vita è impossibile, non si possono crescere tre bambini. Per questo quando si è cominciato a discutere di creare un luogo esclusivo per le donne mi è sembrata la cosa giusta da fare. Rimanerci poi a vivere è stata la diretta conseguenza”.
La casa di Salwa come quelle delle altre donne che vivono qui, è decisamente graziosa e armoniosa. Ognuna l’ha arredata con molto gusto. Sono davvero accoglienti e anche molto funzionali oltre che colorate. Gli spazi per i bambini sono enormi. A fianco alla sua casa c’è quella che i curdi chiamano “accademia”, il luogo dedicato ai bambini che dopo la scuola partecipano ad attività che spaziano su tutto ciò che è arte. Imparano a disegnare, suonare e cantare, a recitare. C’è quindi sempre una sala musica ma anche un teatro vero proprio. All’esterno ci sono gli orti sulla destra e a sinistra alberi di frutta.
“Non bastano le armi, l’arte e la cultura sono anticorpi fondamentali per difenderci”
Yasmine, una curda di Jin War
“Non è che devono per forza poi diventare degli artisti”, ci spiega un’altra donna, Yasmine, che è decisamente più giovane di Salwa. “L’arte è una parte fondamentale della nostra cultura perché è attraverso le canzoni che tramandiamo la nostra storia, ad esempio. Conoscere la musica curda vuol dire conoscere la storia curda”. Come i figli di Jin War, tutti i bambini del Rojava hanno accesso a spazi come questi dove si pratica anche sport come la pallavolo o il calcio. “Imparare a conoscere, distinguere il bello è un modo anche per creare uno spirito critico, un certo gusto, che è un aspetto importante per la vita delle persone”, ci dice Yasmine. “Sono anticorpi fondamentali per difenderci, non bastano mica solo le armi per difendere una cultura millenaria. Anche quelle, senza cultura, sono meno pericolose”, dice tirando fuori quel tipico spirito curdo.
Yasmine sa bene di cosa sta parlando visto che viene da Kobane, dove ha combattuto giovanissima assieme a tante altre giovani donne della Rojava. “Questo non è un posto creato per le donne perché gli uomini sono brutti e cattivi, no. È un posto creato per le donne perché prima un luogo così non c’era – semplicemente, aggiungiamo noi – Qui si può venire anche solo per un breve o medio periodo, per ritrovare l’energia, per stare serene. Una sorta di vacanza dell’anima”, ci dice ancora. Tra le donne che ci sono nel villaggio ci sono storie diverse, ma non è indispensabile essere state vittime di violenza per poter accedervi. “Non è un ospedale” ridono tutte insieme visto che il gruppo di donne attorno a noi si è fatto sempre più nutrito. “Ci sono vedove, ci sono donne che hanno subito abusi, è vero, ma anche donne che semplicemente se ne volevano stare tra donne. Non è indispensabile aver avuto una brutta storia alle spalle per avere accesso qui. Tutte le donne del mondo sono le benvenute, a prescindere dal perché hanno voglia o bisogno di venire qui”.
Dalal, che viene proprio da qui vicino, dalla città di Hassake, ha anche lei tre figli e anche lei è rimasta vedova. “Crescere qui due bambini e una bambina è anche un modo per essere certa che, soprattutto i due maschi, assimilino quei concetti indispensabili per essere domani dei buoni cittadini. E non è solo il rispetto per le donne, che rimane comunque la prima cosa perché senza quello poi non è che può esserci tanto altro. Ma il condividere esperienze insieme, dal gioco alle cose domestiche. Non c’è nulla, a parte partorire, che è precluso solo agli uomini o alle donne. Ed è bene che lo imparino da subito”, ci dice Dalal cambiando il tono nella parte finale. Anche lei è rimasta vedova. Di tutte le donne che incontriamo solo Bertan non ha tanta voglia di esporsi e di raccontare. Lo capiamo perché, non serve chiedere. Li porta sul viso i segni della guerra. Però sorride sempre, comunque.
Perché in Italia non c’è un luogo come Jin War?
Salwa ci tiene a ribadire un concetto. “Quando noi diciamo donna, vita, libertà, non è uno slogan. Per noi una donna libera è una donna che determina, una donna che sa essere leader, che sa sostenere un principio e che lotta per affermarlo. Una donna libera è una donna che sa discutere, che sa portare avanti le proprie ragioni, fino in fondo”, ci spiega mantenendo sempre un tono gentile. Libertà non vuol dire avere relazioni, passare da una cosa all’altra. Prendersi quel che si vuole. Quella è un’altra cosa, principi capitalisti che sono esattamente quelli contro cui dobbiamo ogni giorno lottare. Ma libertà è forza, determinazione, ragione”, ci dice Salwa. “Soprattutto – interviene la giovane Yasmine – libertà è saper dimostrare perché le proprie ragioni possono essere giuste e metterle al servizio delle altre e degli altri. Libertà è capire che per costruire bisogna sapersi misurare con gli altri che può voler dire anche cambiare idea, che è comunque una buona cosa perché vuol dire avere imparato qualcosa”.
In questo clima idilliaco, tra una tazza di tè, il chai, e dolci alle mandorle, facciamo notare che in Europa, in questi mesi si raccontano sempre più spesso storie drammatiche in cui donne vengono uccise da uomini rifiutati. Ci chiedono di spiegarci meglio e facciamo notare che ad esempio in Spagna ci sono stati, in una sola settimana, cinque femminicidi proprio a metà luglio.
Incredule fanno diverse domande e così finiamo per raccontare la storia di Giulia Cecchettin, che è drammaticamente il simbolo di queste che non possiamo semplicemente definire tragedie, ma sono un segnale indiscutibilie che qualcosa nella nostra società non funziona. Ci fanno molte domande prima sulla vicenda nello specifico poi in generale sulla frequenza di questi fatti. Si crea un attimo di silenzio, una lunga esitazione a fronte di ore conversazioni. È a questo punto che riprende la parola Wadih che fino a quel momento non aveva più parlato, e con la stessa spontanea naturale fermezza con cui ci aveva all’inizio spiegato come mai si trova a vivere qui, questa donna araba, rivolgendosi a noi, dice: “Ma perché in Italia non c’è un luogo come Jin War?”.
Fonte : Today