Prospettive incerte, tempi dilatati e risorse scarse. Il dossier pensioni è sul tavolo del governo Meloni ormai da tempo: l’esecutivo ha dovuto posticipare i lavori rispetto all’ultima legge di bilancio, ma anche per il 2025 si naviga a vista. La ministra del lavoro e delle politiche sociali, Marina Elvira Calderone, è stata abbastanza chiara: la riforma “non si farà a breve”, ribadendo comunque che verranno valutati “tutti gli interventi per mettere in protezione chi deve uscire dal lavoro in anticipo, ma perché ha lavorato tanto, e per chi è giovane e deve ancora costruire la propria posizione previdenziale”. I tempi si allungano e la beffa è dietro l’angolo.
Molti esponenti del governo hanno rilanciato a inizio anno il tema della riorganizzazione del sistema previdenziale, non accelerando il discorso ma puntando, come era già noto, a realizzare un intervento strutturale entro la fine della legislatura. Come ha dichiarato Giorgia Meloni nella sua conferenza di inizio anno, “la riforma previdenziale va costruita con equilibrio: il sistema migliore possibile ma uguale per tutti”. Il “come” e il “quando”, però, rimangono ignoti.
Cosa vuole fare il governo Meloni sulle pensioni
L’intenzione sarebbe quella di una riforma organica, razionalizzando le varie regole esistenti, che in molti casi differenziano soprattutto le uscite anticipate. Tralasciando le buone intenzioni a parole e gli annunci fatti in campagna elettorale, la verità è che le risorse a disposizione sono poche, per ora. Cosa c’è da aspettarsi, dunque, per quest’anno e per il 2025? Nei piani del governo ci sarebbe, come già emerso più volte nei mesi scorsi, l’introduzione di quota 41 stabilmente: si andrebbe in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Il problema sta nelle coperture finanziarie necessarie. In questo schema ci sarebbe una penalizzazione in uscita con il ricalcolo contributivo: nei piani dell’esecutivo nascerebbe così un’alternativa alla pensione anticipata.
Il deficit e le coperture
Per il momento, la scelta sulle pensioni è stata quella di confermare quota 103 (41 di contributi e almeno 62 di età) con il ricalcolo contributivo per chi vi accede. Ci sono poi state le novità sull’Ape sociale e il taglio della rivalutazione per gli assegni più pesanti, per fare cassa. Le novità potrebbero arrivare nel 2025, ma l’Italia quell’anno sarà impegnata principalmente nella riduzione del deficit accumulato, senza poter fare “extra deficit” per finanziare nuove misure. Il tema sarà quello delle coperture, ancora una volta. Se nel 2025 non saranno ancora maturi i tempi per la riforma, il governo dovrà decidere se confermare ancora per dodici mesi quota 103 nell’attuale formato. L’altra ipotesi in campo è quella di passare a quota 104 (63 anni di età e 41 anni di anzianità contributiva), che peraltro era già comparsa nelle prime bozze della manovra.
Quota 103 in versione penalizzata
Che l’operazione “nozze coi fichi secchi” non sia oltremodo praticabile lo si comprende dal primo intervento concreto fatto dal governo in tema pensioni: il bis di quota 103, questa volta in versione penalizzata. La pensione anticipata di quota 103 diventa infatti più sconveniente nel 2024. Dopo l’entrata in vigore dell’ultima legge di bilancio, i requisiti restano gli stessi: almeno 62 anni di età e almeno 41 anni di contributi versati. Tuttavia, arrivano nuove penalizzazioni. Le finestre d’accesso alla pensione si allungheranno a 7 mesi per i lavoratori privati (erano 3) e a 9 mesi per i dipendenti pubblici (erano 6). Significa che se un dipendente privato con 41 anni di contributi presenta la domanda di pensionamento a 62 anni, di fatto non riceverà l’assegno prima di 7 mesi, mentre uno statale dovrà attendere per 9 mesi.
Una “novità-beffa” mal digerita dai sindacati, che su questo e altri punti della riforma stanno dando battaglia. Tant’è che secondo la Uil si può ormai legittimamente parlare di “quota 103 e ¾ “. In più, l’importo sarà ricalcolato con il metodo contributivo, il che significa che sarà più basso per tutti gli anni che in cui si è lavorato prima del 1996. E, infine, ci sarà un tetto massimo fissato a circa 2.500 euro lordi (quattro volte la pensione minima), fino a quando non si compiono 67 anni. Insomma: è un dato di fatto che, rispetto allo scorso anno, quota 103 diventa un sistema di anticipo pensionistico più penalizzante.
Sarà metodo contributivo per tutti?
Guardando al futuro, un’intenzione chiara per questa riforma organica è quella di adottare a tutto campo il metodo contributivo, valido per qualsiasi pensionamento prima dei limiti di vecchiaia. Per quanto riguarda i pensionamenti anticipati, sappiamo che la riforma che verrà prenderà spunto dalle misure temporanee inserite nella legge di bilancio, approvata a fine dicembre 2023 dal Parlamento e che vincolano al metodo contributivo tutti i canali di uscita anticipata. Il metodo di calcolo contributivo collega i contributi versati (e fittiziamente capitalizzati a un tasso di crescita legato all’andamento dell’economia) all’aspettativa di vita al momento del pensionamento. L’intenzione è quella di uniformare le regole quanto più possibile.
E per chi è già nel sistema contributivo? La riforma guarda anche ai lavoratori interamente contributivi (cioè chi è in attività dal 1° gennaio 1996), e soprattutto ai più giovani, per assicurare una maggiore copertura previdenziale. Dopo l’accesso più agevolato alla pensione di vecchiaia, il governo punta a rendere più appetibile la previdenza integrativa, in primis per gli under 35: questa opzione, per il momento, è rimasta priva di nuove agevolazioni a causa delle scarse risorse.
Quota 41 e la spesa eccessiva
La Lega di Matteo Salvini continua a insistere sull’adozione di quota 41, cioè la possibilità di uscita dal lavoro con 41 anni di versamenti a prescindere dall’età anagrafica. Un’opzione che per ora non è stata scartata e potrebbe nuovamente essere affrontata al momento della riapertura del tavolo con le parti sociali. In ogni caso, anche se dovesse essere approvata, quota 41 andrà necessariamente vincolata al metodo contributivo. Il quadro però è fosco, soprattutto perché la spesa per le pensioni è esorbitante. Nell’ultimo dossier della ragioneria generale dello Stato sulla previdenza, si stima che nel 2040 la spesa per le pensioni peserà per il 17% sul prodotto interno lordo, con un andamento ancora più sostenuto di quello attuale. Ad oggi, il bilancio preventivo 2024 dell’Inps indica per il prossimo anno uscite a carico dell’istituto per prestazioni pensionistiche per 310,7 miliardi, in crescita del 5,19% sul 2023.
Le vie d’uscita anticipata dal lavoro nel 2024
In attesa della riforma che questo governo vorrebbe portare a termine entro la fine della legislatura, restano in vigore gli attuali strumenti di uscita dal lavoro che, a causa dei nuovi paletti imposti, nel 2024 riguarderanno una platea piuttosto ristretta. I numeri di Ape sociale e opzione donna per l’anno in corso sembrano essere già chiari: sono 14.700 i nuovi accessi stimati per il 2024 con l’anticipo pensionistico sociale, che vede salire a 63 anni e a 5 mesi la soglia anagrafica, e con il canale specifico per le lavoratrici, anch’esso interessato da un aumento del requisito anagrafico. Sono invece appena 17mila le uscite previste attraverso quota 103, vincolate peraltro al ricalcolo contributivo dell’assegno e a un tetto pari a quattro volte il trattamento minimo.
Chi può andare in pensione prima quest’anno, a 63 anni e 5 mesi
A questi numeri così esigui si arriva per il progressivo restringimento dei requisiti di accesso. Prendiamo il caso dell’Ape sociale. Introdotto in via sperimentale nel 2017 e poi più volte prorogato, è un istituto assistenziale selettivo temporaneo a disposizione di lavoratori, rientranti in specifiche situazioni, di lasciare il lavoro prima dei requisiti ordinari ricevendo un assegno “ponte” fino al raggiungimento delle soglie convenzionali. A utilizzare questo strumento sono stati circa 110mila soggetti, con un’età media di 64 anni. Discorso simile per opzione donna, nata nel 2004 e da allora prorogata di anno in anno: tra il 2010 e il 1° gennaio 2023 le adesioni a questo canale di uscita anticipata sono state 174.535, il 16,3% delle pensioni anticipate complessivamente liquidate alle lavoratrici.
I requisiti sempre più rigorosi adottati nel corso degli anni hanno sensibilmente ridotto la platea collegata a queste due vie d’uscita pensionistica anticipata e, di conseguenza, anche il peso sui conti pubblici. Questo basterà per rimettere i conti in ordine e riformare le pensioni con un intervento strutturale entro la fine della legislatura, come promesso da Meloni in campagna elettorale? Il tempo stringe ed è questa, al momento, l’unica certezza.
Fonte : Today