Diciamo la verità, abbiamo tutti scosso la testa almeno una volta nella vita sentendo parlare di cancel culture (quella tangibile però, non quella sbandierata per fare propaganda politica). Un pensiero di alcuni che vorrebbe nascondere elementi dolorosi del nostro passato, parole che hanno fatto sanguinare un popolo intero, eventi drammatici che in realtà vanno contestualizzati, capiti e metabolizzati, e non spazzati sotto al letto, altrimenti diventano proprio quei mostri di cui abbiamo paura. American Fiction inizia così, con un bel dito medio spigoloso che lascia presagire tutto del protagonista interpretato da Jeffrey Wright, scrittore e docente che non intende scendere mai a compromessi, nemmeno di fronte al giorno del giudizio letterario.
Candidato a ben cinque Premi Oscar e disponibile su Prime Video (Film, Attore protagonista e non protagonista, Sceneggiatura originale e Colonna sonora), il lungometraggio dell’esordiente Cord Jefferson è un’opera prima che brilla di guizzi geniali da risata roca, anche se a tratti non riesce a trovare davvero la propria identità, dividendosi fra due anime preziose ma non sempre capaci di parlarsi. Un po’ come il suo protagonista. Qua ci eravamo chiesti se le candidature agli Oscar 2024 fossero giuste.
American Fiction e la (non) cultura afroamericana
Volessimo racchiudere American Fiction in una frase potrebbe essere “cosa succederebbe se uno scrittore stimato ma non troppo conosciuto decidesse di scrivere un libro che lui reputa brutto per scherzo?”.
Il film sembrerebbe partire da qui, perché il Monk di Jeffrey Wright insegna ma gli viene forzatamente fatta prendere una pausa per i suoi modi, è uno scrittore eccelso che ha pubblicato libri senza mai sfondare, e si ritrova di fronte una giovane autrice che, stando a lui, ha firmato un libro zeppo di stereotipi sulla cultura afroamericana che però sta avendo un successo enorme. Nel mentre però irrompe la famiglia di Monk, e American Fiction inizia a dividersi fra la parte di critica alla (non) cultura afroamericana che permea gli Stati Uniti e quella che vede il protagonista trascinato da eventi tragici dentro un nucleo che aveva cercato di scacciare il più possibile. Sarà proprio questa sua nuova normalità a spingerlo a scrivere lo stesso libro stereotipato, con il volume sparato a mille su qualsiasi preconcetto che l’uomo bianco potrebbe avere sulla cultura afroamericana. Qui però la critica sociale di American Fiction stiletta, perché quel libro è un successo enorme.
Lavoro, famiglia e satira
Entrambi i binari di American Fiction procedono bene: la parte famigliare è genuina, fatta di macigni non detti che si trascinano nelle vite di tutti, a partire dal fratello di Monk, interpretato da un sempre magnetico Sterling K. Brown, che si lascia andare a genuini momenti comici tipici di una dramedy anche sopra le righe, ma sempre sorretta dai sentimenti.
E in quello che per lui era un gorgo Monk entra e si lascia trasformare, riconnettendosi a sé stesso e a ciò che forse aveva provato a scacciare per troppo tempo. Pure la boutade trasformata in enorme successo commerciale stravolge Monk, e infatti American Fiction sfrutta l’elemento per raccontare le storture del pubblico statunitense (ma soprattutto di chi quel pubblico lo imbocca, tra case editrici e cinematografiche). Cord Jefferson ritaglia piccoli istanti in cui stiletta il suo stesso Paese, come avesse l’Adam McKay del trittico La grande scommessa, Vice e Don’t Look Up quale nume tutelare delle sue sparate al vetriolo. Jefferson aveva anche scritto uno degli episodi più belli della serie di Watchmen (qua la nostra recensione del sesto episodio di Watchmen).
Il problema però risiede soprattutto in questo: i binari procedono bene, ma procedono abbastanza separati. Un po’ come se American Fiction volesse parlare di due cose, riuscendo a farlo bene, ma senza che le due anime del film abbiano un vero e proprio dialogo fra loro. Perché le parti in cui Cord Jefferson mette in scena con pochi elementi la ricerca da coda di paglia del nuovo fenomeno afroamericano sono precise e puntuali: “Credo sia essenziale ascoltare la voce dei neri” detto da una donna bianca mentre va contro le opinioni di due persone afroamericane (che ricorda molto una scena simile diventata poi meme di Bojack Horseman).
Così come le grandissime interpretazioni di Jeffrey Wright e Sterling K. Brown rendono tangibili i loro personaggi, in cui è naturale riconoscersi per svariati motivi, soprattutto nelle loro dinamiche famigliari. Resta allora il rimpianto di un film che non è stato davvero in grado di amalgamare le sue anime, lasciando a guizzi singoli quello che avrebbe dovuto srotolarsi in tutto il lungometraggio. American Fiction non è riuscito a concentrarsi davvero sulla critica sociale, fulcro tematico dell’opera, eppure nei momenti in cui lo fa strappa parecchi brandelli al perbenismo tossico statunitense. Con una splendida risata.
Fonte : Everyeye