“La quantità di tempo che dedichiamo alla vita digitale, ci sta avvicinando o allontanando da quello che desideriamo vivere?”.
Questa domanda rimane, scritta sullo schermo, alla fine di un video in cui Andrea Nuzzo, creator e coordinatore degli Unfluencer, racconta la sua ‘astinenza’ dai social network. Un periodo fuori dalle piattaforme dovuto a quella che definisce ‘stanchezza digitale’, una sensazione dovuta, dice, anche alla trasformazione degli spazi sociali digitali in una sorta di nuova televisione.
Sono parole che restano. E restano ancor di più perché il tema sembra essere sempre più oggetto di dibattito. Anche merito – o colpa? – di Fedez che, nella prima uscita pubblica dopo le notizie sulla presunta separazione da Chiara Ferragni, ha parlato proprio di social media. “Ho idea che questa generazione sia servita un po’ da cavia rispetto a tanti strumenti, mezzi, piattaforme, media – ha detto -. Gli stessi social network andrebbero studiati così come le ripercussioni psicologiche, psichiatriche, sociali e culturali che stanno avendo in molti Paesi perché siamo un po’ cavie in queste cose”.
Esperienze individuali – probabilmente discutibili nel caso di un Fedez alla ricerca di un riposizionamento e che ha spesso usato i social media in modo discutibile – ma che vanno incontro a una tendenza globale. A gennaio, il sindaco di New York Eric Adams aveva definito le piattaforme sociali una “tossina ambientale”, una questione di salute pubblica nella città. Ancor più incisiva la mossa del piccolo comune di Seine-Port, a Sud di Parigi: la cittadina ha vietato l’uso degli smartphone nei luoghi pubblici, a seguito di un referendum.
Storie, aneddoti, utili a raccontare una tendenza, una stanchezza, nei confronti dell’oggetto – lo smartphone – e degli spazi digitali – i social network – che più di ogni altra cosa hanno cambiato la nostra vita negli ultimi 10-15 anni.
C’è una domanda, però, a cui è importante rispondere, per capire cosa sta succedendo: ma davvero i social network fanno male?
I social media fanno male?
A integrazione delle parole di Fedez, esistono molte ricerche sul tema e c’è un dibattito scientifico che va avanti da alcuni anni. Gli studi si concentrano soprattutto sugli adolescenti, i soggetti probabilmente anche più coinvolti statisticamente nell’uso delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa, la risposta sarebbe stata piuttosto semplice: no, non ci sono evidenze scientifiche in questa direzione. Tra gli studi più noti, quello pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour da Orben & Przybylski (2019), intitolato “The association between adolescent well-being and digital technology use”. Uno studio che, a partire da tre dataset di grandi dimensioni, con dati da adolescenti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha provato a individuare correlazioni tra benessere mentale e uso dei media digitali. In quel paper, i ricercatori hanno rilevato un’associazione minima. Con una formula molto celebre, il potenziale effetto negativo dei social media sulla salute mentale è risultato così piccolo da essere paragonabile a quello associato a “mangiare patate” o “indossare occhiali da vista”.
Lo studio è stato pian piano superato da una serie di altre ricerche. Un ricercatore statunitense, Jonathan Haidt, mantiene un prezioso Documento Google aperto e condiviso, che raccoglie tutta la letteratura scientifica sul tema. Letteratura che inizia a individuare correlazioni evidenti: l’uso dei social media appare legato in particolare all’emergere di ansia e depressione, in particolare per le ragazze. Una circostanza, questa, emersa anche dalla testimonianza di Frances Haugen: la whistleblower ex Facebook aveva rivelato come Instagram conoscesse gli effetti che la piattaforma aveva sulle giovani donne, ma aveva scelto di tenerli privati.
Non c’è consenso scientifico su questi temi, questo è importante sottolinearlo. La critica principale è che gli studi correlano il benessere mentale all’uso dei social media, senza individuare un nesso di causalità. Cioè, è possibile che chi passa più tempo su Instagram sia più ansioso, ma non è detto che la causa sia Instagram. Inoltre, come sottolinea un recente report dell’American Psychological Association, gli effetti dei social network cambiano a seconda della persona che li usa. Sono quindi influenzati dal contesto sociale, dalla provenienza geografica, dalla famiglia.
Tuttavia, sta emergendo nuova letteratura per provare a trovare associazioni causali. Uno studio interessante è quello di Braghieri, Levy e Makarin, che hanno sfruttato il fatto che Facebook all’inizio fosse offerto solo agli studenti di un numero limitato di college. Man mano che l’azienda si espandeva in nuovi college, si sono chiesti i ricercatori, la salute mentale è cambiata nell’anno o nei due anni successivi in quelle istituzioni, rispetto ai college in cui gli studenti non avevano ancora accesso a Facebook? Sì, è peggiorata.
“Abbiamo riscontrato – scrivono gli autori – che l’introduzione di Facebook in un college ha peggiorato la salute mentale, in particolare la depressione, e ha portato a un maggiore utilizzo dei servizi di assistenza sanitaria mentale. Inoltre, secondo i resoconti degli studenti, il peggioramento della salute mentale si è tradotto in un peggior rendimento scolastico. Ulteriori prove sui meccanismi suggeriscono che i risultati siano dovuti al fatto che Facebook favorisce confronti sociali sfavorevoli”.
Gli smartphone hanno distrutto una generazione?
C’è un libro che si chiama Generations, uscito lo scorso anno negli Stati Uniti. L’autrice è una psicologa, Jean Twenge. La tesi di Twenge è che sia la tecnologia a guidare le differenze generazionali, attraverso due traiettorie socio-culturali. Da un lato, la tendenza a un sempre maggiore individualismo; dall’altro, il rallentamento della traiettoria di vita.
Ecco, secondo Twenge, la condizione della Generazione Z, che sta attraversando un po’ in tutti paesi occidentali una crisi per quello che riguarda la salute mentale, sarebbe quasi del tutto figlia degli smartphone. Del resto, scrive Twenge, i livelli di benessere mentale calano dal 2012, l’anno in cui i dispositivi mobili sono saliti oltre la soglia del 50% di diffusione nel mondo. E poco contano i dati: gli effetti sono talmente vasti da non essere nemmeno misurabili.
“Gli smartphone – si legge nel libro – sono dispositivi di comunicazione: non influenzano solo il singolo utente, ma anche l’intera sua rete sociale: tutti sono coinvolti, a prescindere dall’utilizzo diretto. L’intera dinamica sociale è cambiata con lo spostamento della comunicazione online, a discapito degli incontri di persona e dalle telefonate”.
Ecco, c’è probabilmente una tendenza sociale più ampia, alla base dei cambiamenti favoriti dagli smartphone. C’è un articolo del 2019 che ha fatto la storia del giornalismo online, di Anne Helen Petersen per Buzzfeed News, che racconta di come i Millennial (nati tra il 1980 e il 1996) fossero diventati la generazione del burn-out. Il pezzo parla di una generazione educata per il luogo di lavoro, ottimizzata all’insegna della riduzione del rischio e della massimizzazione del profitto. Del passaggio da un’infanzia non strutturata a un’infanzia supervisionata, scandita da tempi e modalità precise (la scuola, i compiti, la palestra, il corso di pianoforte…). Ecco, in questa tendenza alla sicurezza, all’ottimizzazione della vita, sono arrivati gli smartphone, a offrire uno spazio sicuro di socializzazione, interpretando probabilmente un bisogno, una necessità. Amplificando un processo già in atto, velocizzato dalla pandemia, verso l’atomizzazione.
Perché alla base della tecnologia, c’è spesso una visione del mondo. Forse è (anche) quella visione il tema da affrontare.
Fonte : Today