“Perchè a volte uno si pensa incompleto ed è soltanto giovane”
(Italo Calvino, Il Visconte Dimezzato)
Siamo genitori sull’orlo di una crisi di nervi. Guardiamo i nostri figli e non li riconosciamo più. Ci sembrano chiusi, apatici, asociali. I loro occhi si illuminano solo quando guardano lo schermo dello smartphone e del PC. Ma che ci troveranno lì dentro? Che si scriveranno tutto il tempo? I maschi con i videogiochi tornano addirittura in vita: si entusiasmano. E questo ci preoccupa: e se per colpa delle scariche di dopamina delle battaglie che fanno su Fortnite diventassero dipendenti come dei drogati? Se diventassero violenti? Deve essere per colpa dei social e dei videogame se vanno male a scuola e molti hanno smesso di andarci.
Che guaio. Dove abbiamo sbagliato? Pensavamo di aver dato loro tutto. Tutto quello che non avevamo avuto noi quando eravamo piccoli. Forse è stato troppo. Ci conforta (ed è paradossale) non essere i soli a vivere questo dramma: basta parlarne in una chat scolastica e viene fuori che anche i figli degli altri sono problematici per le medesime ragioni. Colpa di Internet. In questo attacco di panico collettivo la reazione è univoca: gli leviamo lo smartphone, il computer e i videogiochi nell’illusione che basti questo a fare vivere i ragazzi come vivevamo noi quando avevamo la loro età. Quelli sì che erano bei tempi, quando si andava all’oratorio, non come adesso che abbiamo perso il controllo dei nostri figli. Alcuni genitori sono ossessionati dal fatto di entrare in possesso della password del loro smartphone per capire finalmente chi sono. Quelli che lo hanno fatto raccontano di essere rimasti scioccati da quel che hanno letto o ascoltato nei vocali che i ragazzi si mandano. Ma non hanno risolto il problema, di solito non lo hanno nemmeno capito.
Ci stiamo perdendo una generazione? Già nel 2008 lo scrittore Nicholas Carr scrisse un saggio che fece scalpore provando a rispondere alla domanda “Google ci rende stupidi?”. Sulla risposta si aprì un grande dibattito, molti dissentirono, ma su una cosa ci fu un sostanziale accordo: Internet non era certamente solo una rete di computer e nemmeno una rete di persone che comunicano e basta; ma uno strumento che stava modificando il nostro sistema cognitivo, ovvero il nostro modo di apprendere e di pensare. Stare in Rete ci modifica il cervello. Deve essere per questo che i nativi digitali oggi ci appaiono sostanzialmente degli alieni. Sono davvero diversi da noi e non li stiamo capendo.
Va detto che quando Carr scrisse quel saggio, Instagram e TikTok nemmeno esistevano, il telefonino più venduto era un Motorola e le app di messaggistica muovevano i primissimi passi (WhatsApp sarebbe stata lanciata l’anno seguente). Insomma se c’era un problema, è peggiorato. E se è peggiorato, noi genitori abbiamo dato un contributo formidabile. Chi ha messo in mano ai nostri bambini smartphone, tablet, PC e console? Noi. Nelle scorse settimane l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’università Cattolica ha condotto una grande ricerca su un campione di bambini e adolescenti (8-16 anni): “La cosa terrificante – dice Maria Grazia Fanchi, che ha coordinato la ricerca – è questo ingresso precoce del digitale nelle loro vite”. Un terzo dei bambini riceve uno smartphone fra gli 8 e 9 anni, la metà nei due anni successivi. “È il classico regalo della prima comunione”, dice la ricercatrice che suggerisce di fare corsi di alfabetizzazione digitale, ma ai genitori non ai figli. I controlli parentali per limitare la navigazione (questi) vengono usati poco e male. Il risultato è che un terzo dei bambini dice di stare su Instagram, Tik Tok e Facebook sebbene sia vietato; due terzi guardano YouTube (dove fanno “esperienze spiacevoli”, ammettono); e WhatsApp è diffusissimo. Non parliamo di adolescenti, parliamo di bambini. E se fosse questo l’errore? Se fosse questo il motivo per cui poi si perdono? Li esponiamo al digitale troppo presto?
Il sindaco di New York sul punto non ha dubbi. Si chiama Eric Adams, è un democratico, innamorato dell’innovazione; ma nei giorni scorsi ha fatto causa a Instagram, Tik Tok, Snapchat e YouTube per i danni che stanno facendo agli adolescenti. La citazione in giudizio (oltre 300 pagine) è il più potente e argomentato atto d’accusa mai fatto contro la Silicon Valley. È stato ribattezzato I bambini contro Big Tech e dice in sostanza: queste aziende nel nome del profitto hanno messo assieme i migliori progettisti e neuroscienziati per realizzare piattaforme che ci tengono incollati allo schermo sfruttando il modo in cui funziona la nostra mente; come può un ragazzino resistere a tutto questo? Impossibile. Nel ricorso si citano dati drammatici sullo stato di salute dei giovani americani: un aumento del 57% dei suicidi; del 117% delle patologie legate all’ansia; del 40% di tristezza e sconforto. Se questa interpretazione è vera, allora dobbiamo spegnere tutto. Subito.
Epperò chi sta tutti i giorni, da anni, ad ascoltare i giovani racconta una storia totalmente diversa. Lo psicologo Matteo Lancini è il presidente della Fondazione Minotauro di Milano, “forse il centro che ascolta più adolescenti e giovani adulti in Italia”. Dice: “Non esiste una correlazione certa fra disagio giovanile e i social media. La città di New York ha fatto benissimo a fare quel ricorso perché se i nostri figli stanno male per colpa dei social allora non è colpa nostra che li ignoriamo, non è colpa della scuola che non li ascolta, o perché con il cambiamento climatico non hanno un futuro. Quel ricorso è un modo degli adulti per assolversi”. Secondo Lancini “i giovani non stanno male per colpa dei social e dei videogame ma stanno sui social e sui videogame perché stanno male”. Riempiono un vuoto. La causa ultima del malessere sarebbe da ricercare nella fragilità degli adulti che crea adolescenti ansiosi: “I bambini crescono iper controllati a distanza da genitori e immobilizzati a scuola, con un tempo libero occupato da attività programmate dagli adulti, il che aumenta continuamente il livello di aspettative”.”.
Su questa impostazione concorda lo psichiatra Federico Tonioni che dal 2009 dirige il primo ambulatorio sulla dipendenza di Internet, al policlinico Gemelli. Dopo quindici anni in prima linea si sente di poter dire: “Sono una generazione iperstimolata, ma abbiamo sottovalutato il sovraccarico emotivo di questa continua richiesta di performance. Meno male che i ragazzi hanno Internet che per loro è uno spazio di socialità essenziale e protetto, nel senso di mediato da uno schermo. La scuola è di una noia mortale e i docenti diagnosticano come disturbo dell’attenzione il fatto che molti ragazzi preferiscono apprendere in modo diverso. Quanto ai genitori, chiedere la password dello smartphone dei figli adolescenti è sbagliato, come è sbagliato spiarli e controllarli. Negli smartphone le persone mettono le proprie fantasie e i propri sogni. Se qualcuno avesse letto nella nostra mente quando avevamo 14 anni, che idea di noi si sarebbe fatto?”.
Insomma, i famosi “no che aiutano a crescere” andrebbero detti prima. Quando i figli diventano adolescenti i divieti tecnologici fanno soltanto danni. Che fare allora davanti a un figlio in crisi? “I ragazzi in difficoltà manifestano un bisogno di essere amati e capiti proprio quando sbagliano e falliscono”, dice Tonioni. Bisogna interessarsi davvero a loro, aggiunge Lancini: “Sostituire il solito repertorio di domande indagatorie sui successi e i fallimenti scolastici e sull’adempimento dei doveri con un vero interesse per la loro vita”. Dire per esempio: Come stai? Sei felice? Ti voglio bene. E poi la frase più difficile e importante di tutte: Mi fido di te. Chiosa Tonioni: “C’è una frase che molto spesso diciamo ai bambini e che è proprio tossica. È la frase: Potevi fare di più. Anche solo pensarlo fa dei danni”.
È davvero questa la strada? È una sfida durissima, la costruzione di un nuovo patto con i figli richiede ai genitori un sacco di tempo per rimediare agli errori fatti fin qui. Ma l’importante è non farne altri.
Fonte : Repubblica