A un primo sguardo potrebbe sembrare, e in parte è davvero così, un grande anno per il cinema e soprattutto per le sale italiane. Il fenomeno che ha visto coinvolti Barbie e Oppenheimer, seguito dal successo targato Cortellesi (qui la recensione di C’è ancora domani), oltre ai prevedibili risultati positivi al box office per Wonka, Assassinio a Venezia o Napoleon, hanno dato nuova linfa vitale agli esercenti e riportato un gran numero di spettatori a riassaporare il gusto del grande schermo. Se da una parte però ci sono titoli, come quelli sopracitati, che macinano biglietti, dall’altra non sono pochi – spesso e volentieri distribuiti accanto a giganti mainstream – quelli che non arrivano a spiccare e che si perdono, restano poco tempo in programmazione e puntano, mesi dopo, a resuscitare grazie al digitale.
Pare così opportuno citare e rendere onere alcuni dei film usciti nel 2023 in Italia che, a dispetto della loro altissima qualità e di un valore artistico e produttivo eccellente che li rende tra i migliori dell’anno, non sono stati considerati abbastanza dal pubblico italiano. Restano fuori dal breve elenco tutti i titoli distribuiti nel mese di dicembre – tra i quali i bellissimi Foglie al vento di Kaurismäki e Il male non esiste di Hamaguchi – a causa del poco tempo a disposizione per esser notati sia dal grande pubblico che da quello più interessato al cinema d’autore.
Animali selvatici
Cristian Mungiu è, insieme a Radu Jude, una delle voci più importanti del nuovo cinema rumeno e di un modo di concepire la settima arte come mezzo per poter esprimere dei valori che, partendo dalla propria terra, possano risultare universali. È proprio questo aspetto uno dei moltissimi pregi di Animali selvatici (R.M.N il titolo originale), film che inscena i conflitti sociali e razziali in una comunità della Transilvania, area che vive un delicato equilibrio geopolitico, interessata dall’influenza rumena, tedesca e ungherese.
Sono, infatti, le diverse provenienze, gli accenti, le lingue stesse (guardarlo doppiato, in questo caso, rischierebbe di annullarne la complessità), le culture, le differenti convinzioni sul modo di concepire il mondo il vero motore del lungometraggio. Ogni individuo sembra poter avere una voce, anche quando comunica messaggi aberranti, e per quanto l’autore sia schierato egli non nega ai suoi personaggi la parola. È la scrittura più democratica possibile, quella che accetta di avere un ideale ma che sa che il mondo è molto più complesso e sfaccettato. Nessuna risposta certa ma tante domande.
Una pluralità di voci e una coralità che animano la vicenda non solo dal punto di vista dalla scrittura, intrecciando perfettamente tutto ciò che può sembrare slegato e autonomo, ma soprattutto nelle scelte compositive: Mungiu sfrutta così gli spazi e i gesti, gli sguardi e la posizione dei corpi, per comunicare e arrivare a mettere in scena una sequenza di gruppo – a camera fissa, priva di stacchi e di circa una ventina di minuti – tra le più memorabili degli ultimi due anni. Difficile da realizzare ma ancor di più da pensare, tra il documentario e il saggio antropologico. Animali selvatici racconta, in un certo senso, la storia dell’Europa intera e delle sue contraddizioni, delle spinte sociali e delle tensioni, delle difficoltà di un paese che riflettono quelle di un intero continente.
Leila e i suoi fratelli
Avere sei protagonisti principali è sempre un ostacolo grandissimo per la riuscita di un’opera. Serve saper equilibrare i momenti, scrivere e caratterizzare adeguatamente le singole identità e le loro personalità, lavorare con le immagini, se di cinema di parla, per individuare gli aspetti più nascosti del loro animo. Saeed Roustaee, nome da tenere d’occhio per il futuro, ci riesce benissimo in uno dei titoli più intelligenti e stimolanti visti di recente.
Leila e i suoi fratelli è un polifonico ritratto familiare dalla straordinaria intensità, che per quasi tre ore intrattiene con una semplicità disarmante, grazie soprattutto ad un senso dello spettacolo molto contemporaneo, autoriale e sferzante nei confronti del suo ambiente politico e sociale (anche quando non sembra, il cinema iraniano non riesce a metter da parte la politica) ma al contempo piuttosto facile da seguire, vicino al ritmo della serialità moderna e commerciale.
C’è da chiedersi dove sia stato Roustaee fin ora, perché un equilibrio narrativo e compositivo simile – in un contesto drammaturgico che racconta tutto fuorché l’equilibrio – spesso lo si raggiunge dopo anni. Leila è i suoi fratelli è, così, un’illuminazione. Parla a tutti senza rinunciare a farlo in maniera colta, non privandosi di esplorare la cultura e lo status socio-economico della famiglia iraniana: esser donna in una società a misura d’uomo, la casa come muro e limite, i legami contro il capitale, la senilità e la dignità, tutti temi scandagliati e indagati a fondo, in grado di generare più di un momento di ilarità ma dal sapore piuttosto amaro.
Inizia sottotono, molto dialogato e senza accelerazioni, per poi crescere minuto dopo minuto, va aspettato ma poi ripaga con gli interessi, utilizzando quelle tante parole come stimoli per la tragica epopea dei Jourablou. È quel cinema che trova in Asgar Fahradi il suo punto di riferimento (Taraneh Alidoosti la si era vista proprio in due suoi lavori, About Elly e Il cliente), basato su storie complesse, che stimolano il dubbio e la morale di chi le guarda, che chiede di fare delle scelte e di schierarsi, di far lavorare lo spettatore durante ma specialmente dopo la visione.
Pacifiction
Non solo tra i film più visionari del 2023 (come molti in questa piccola lista, del 2022 ma uscito in Italia solo quest’anno) ma senza ombra di dubbio tra i più strani. Ci sono esperienze cinematografiche attorno alle quali possono nascere fruttuose speculazioni volte alla spiegazione di esse stesse ma che, forse, meriterebbero di esser lasciate in quell’assurdità dalla quale vengono ammantate post visione. Pacifiction è quasi un sogno, una fuga paradisiaca nella bellissima Polinesia francese, che diventa presto un incubo di lynchiana memoria, ambiguo e inafferrabile, da brivido ma allo stesso tempo attraente.
L’ultimo lavoro di Albert Serra (qui la recensione di Pacifition) è uno studio sopraffino sui sensi, che sfida la resistenza dello spettatore più allenato, indugia su se stesso, accartocciandosi e risemantizzandosi periodicamente, privo di identità definite. Il regista francese distrugge il tempo e lo spazio, disintegra gli appigli mentali, narrativi e scenici, rallenta e velocizza, illumina e annebbia, esplicita e gioca con la metafora. Prima di esser racconto, cinema e arte, quella di Serra è più un’analisi personale di sé stesso e del mondo moderno, una seduta psicologica dell’autorialità e del linguaggio, dell’esistenza coeva ricercata ma allontanata con prepotenza, annullando e operando sul dettaglio, le micro-possibilità del filmico e oltre.
Fuori da ogni concezione spazio-temporale, dimensione filmica, categorizzazione e classificazione, il suo Pacifiction vive non solo sulle atmosfere allucinate e destabilizzanti ma soprattutto sul suo protagonista, un Benoit Magimel titanico che domina la scena e dona all’operazione un fascino ancor più grande. Un’oscura fiaba politica, quella di Serra, che oltre al linguaggio autoreferenziale e le esasperate suggestioni visuali, sa giocare con il thriller e la paranoia, le dinamiche legate al potere e al controllo, il destino dell’uomo, quest’ultimo deflagrato e ridotto a insignificante fantasma mentre il mondo, pur nella sua bellezza naturale, sta per sprofondare, andando incontro a una sorta di apocalisse lenta ma inevitabile.
Decision to Leave
L’incasso in Italia è stato esiguo e le voci si sono fermate a poche settimane dall’uscita. Visto in poche classifiche e liste, quasi un crimine per un’opera così, l’ultimo lavoro di Park Chan-wook non solo è uno dei migliori film del 2023 (qui la nostra recensione di Decision to Leave) ma soprattutto uno dei suoi progetti più riusciti. Perché (ri)vedendolo, Decision to Leave sembra condensare tutta l’esperienza del suo autore, le sue ossessioni ma soprattutto una tecnica, giunta forse all’apice della maturità, che qui diventa elemento cardine per elevare l’operazione allo stato dell’arte.
Perché forse solo questo cineasta poteva prendere una trama semplicissima, un poliziesco dalle tinte melò, e decostruirla grazie al montaggio e alla regia, trasformandola in un capolavoro che parla con le splendide immagini pregne di stratificazioni e una storia senza coordinate solide da seguire, che lascia più dubbi e meno certezze e che stimola una profonda riflessione sul vero e il falso.
Tutt’altro che semplice e lineare, Decision to Leave è un viaggio nella psiche di un detective – tra violenza autolesionistica e psicologica, amore impossibile e tormento devastante, oltre alla tantissima ironia con la quale tutto ciò viene filtrato – che lavora, visivamente e narrativamente, in maniera così lucida e precisa, su ossimori e contrasti, su sentimenti e i desideri più insensati ma allo stesso tempo estremamente comprensibili. Park manovra tutti gli elementi creando quella che pare una forma cinematografica nuova e mai vista, sintesi del suo cinema e qualcosa che raramente si è visto, fuori dai canoni del genere – e dei generi tutti, si potrebbe dire.
Molto classico in superficie ma stupefacente nel dettaglio, l’ultimo film del regista coreano rifugge dalle strutture preconfezionate e i linguaggi più convenzionali: sono pochi (forse solo La donna che visse due volte) i titoli ai quali si può associare quest’opera, perché niente si può paragonare a certe modalità espressive. Certi passaggi sembra di vederli per la prima volta su uno schermo. Un progetto complessissimo nell’idea e nella realizzazione, che però poi, nella sua messa in scena finale, diventa l’esempio più concreto, tra quelli visti quest’anno, di cos’è e cosa dovrebbe essere il cinema.
As bestas
Di Rodrigo Sorogoyen non si parla molto ma quando succede è quasi sempre con entusiasmo. As bestas è tra i thriller più interessanti dell’anno, un boccone difficile da mandar giù, che senza mezze misure descrive l’uomo e il suo lato più bestiale, quegli aspetti selvaggi e irrazionali che non sono semplici da spiegare ma che, durante la visione, generano un senso di rabbia, frustrazione e paura come pochi.
La cultura dell’odio indiscriminato è al centro dell’ultimo film del regista spagnolo, sono i sentimenti e le storie di persone comuni che devono fronteggiare il male insito nell’uomo ma che il più delle volte devono arrendersi davanti all’impotenza del buonsenso. Perché non è solo Francia contro Spagna o cultura contro ignoranza: è soprattutto uomo contro uomo, uno scontro fratricida e cannibale indipendente da tutto, che non guarda negli occhi nessuno. Un cinema di denuncia semplicissimo, senza fronzoli ma diretto e incisivo proprio per la sua natura secca e asciutta, accentuata dal rigore di Sorogoyen e dall’abilità con la quale riesce a lavorare di sottrazione minimalistica a una scrittura che con pochi elementi, spesso reiterati, riesce a delineare un tragico spaccato sociale pronto a esplodere e devastare partendo dallo scontro ideologico.
È tutta lì la grandezza del film, in quell’esplosione sempre rimandata, che ogni volta turba più di ogni gesto estremo e plateale di violenza, che tarda ad arrivare ma che proprio così diventa ancor più spaventosa quando accade, aggravata dall’ansia accumulata. Introdotto da un incipit tra i più dirompenti dell’anno, As bestas riesce, poi, dove molti altri fallirebbero, trovando in un punto che per chiunque sarebbe stato conclusivo, la forza per costruire un nuovo tragitto narrativo, che forse allenta la tensione ma che fortifica i tre quarti precedenti.
Fonte : Everyeye